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Carlos Fonseca, la tentazione del fuoco

Carlos Fonseca, la tentazione del fuocoNorman Bluhm, «Dido», 1973

Scrittori dalla Costa Rica Funzionando alla maniera di un dispositivo mimetico, «Museo animale» ha i caratteri del testo speculativo, più che del romanzo vero e proprio: da Sellerio

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 24 luglio 2022

I romanzi, inclusi i più audaci e sperimentali, hanno questo limite: che le loro storie sono sempre storie di uomini e la loro prospettiva temporale è perciò sempre quella di uomini che ragionano in termini di giovinezza o vecchiaia, amori e tradimenti, padri e figli, vivi e morti. Esistono esempi, tentativi anche molto riusciti e perfino dei classici in cui il protagonista è qualcosa di diverso, comunque una creatura vivente, un animale come il cane del Richiamo della foresta, o oggetti inanimati che aspirano a vivere o a possedere una qualche forma di pensiero e consapevolezza che li renda di fatto umani: su tutti il ciocco di legno della nota favola. Immancabilmente poi, questi personaggi, che siano animali o oggetti assurti alla vita, devono vedersela con noi sapiens, il che relativizza fatalmente la loro alterità.

L’obiezione più ovvia è perché mai tutto ciò debba essere considerato un limite. Non è forse questo che si chiede alla letteratura: occuparsi di noi? E comunque: di cosa dovrebbe parlare un romanzo, se non della condizione umana? Una deviazione dalla norma è in Museo Animale di Carlos Fonseca (Sellerio, traduzione di Gina Maneri, pp. 465, € 17,00), dove un personaggio ragiona per anni sul fuoco e vagheggia «un romanzo sulla storia del fuoco: un romanzo in cui il fuoco fosse il vero protagonista, che cominciasse con l’equazione chimica della combustione per poi abbracciare tutti i continenti e tutte le epoche, che attraversasse la storia come una prateria in fiamme» . Malgrado la ritenga un’idea con i «controcazzi», il personaggio in questione si vede costretto ad ammettere di non essere riuscito a metterla in pratica e questo perché non sa che forma dare a un’opera del genere. Pensandoci bene però, una forma già esiste e molti sono i libri di questo tipo, solo che non sono romanzi ma libri di storia naturale.

Riferimenti a Sebald e Piglia
Natural History è peraltro anche il titolo della traduzione inglese del romanzo di Fonseca; non rende alla lettera l’originale Museo animal ma non ne tradisce lo spirito e ha inoltre il vantaggio di richiamare un altro titolo, Storia naturale della distruzione di W. G. Sebald, e indicare quali siano i riferimenti di questo autore costaricano, cresciuto a Puerto Rico e formatosi a Princeton, trovando tra i docenti Ricardo Piglia, a cui è dedicato il romanzo.

Oggi Fonseca vive a Londra e insegna a Cambridge, un dettaglio che ha senso menzionare visto che affianca alla narrativa una produzione saggistica in cui affronta gli stessi temi: in The Literature of Catastrophe, per esempio, studia le tormentate conseguenze delle tante guerre d’indipendenza combattute in America latina. Fonseca le analizza in parallelo alla rappresentazione di vulcani, terremoti ed epidemie, il tutto al fine di mostrare la violenza di certi processi politici e sociali. Museo animale si pone obiettivi altrettanto ambiziosi; muovendosi sul doppio e insidioso crinale di un romanzo speculativo costruito su più livelli, intreccia storie e personaggi diversi in un ardito gioco di incastri. Il fuoco è appunto tra i motivi ricorrenti. Divora dipinti, carte geografiche, monaci che si immolano nelle strade, arde nel sottosuolo di una cittadina mineraria, dà il nome a un angolo di terra alla fine del mondo, è fissato da occhi pensosi. E poi i libri naturalmente. Vengono evocati scenari alla Fahrenheit 451, la distruzione della biblioteca di Alessandria, i manoscritti arabi andati persi tra le fiamme nel 1501 per ordine del cardinale Cisneros e roghi meno noti, meno storici, ma non per questo meno devastanti, come «quello dei libri durante il colpo di stato del 1973 in Cile, quando si dice che furono bruciate più di quindicimila copie di un romanzo di García Márquez».

Il fuoco è inoltre una tentazione per la voce narrante del romanzo, il curatore del museo di storia naturale del New Jersey che una sera si vede recapitare da un autista un pacco con dentro tre buste. Il giovane uomo vorrebbe distruggerle dandole alle fiamme, carezzando così l’idea di evitare il confronto con un fantasma del passato, quello di Giovanna Luxembourg, la stilista prematuramente scomparsa che sette anni prima lo aveva contattato per invitarlo a collaborare al progetto di una mostra. Nelle buste – così immagina il curatore – sono contenute carte che la donna aveva a suo tempo promesso di mostrargli affinché gli fosse più chiaro il senso delle sue strane idee. Ossessionata dalle strategie dissimulatrici adottate da certi animali, la stilista pensava alla moda come a un’arte del mimetizzarsi e del nascondersi. Va da sé che il curatore – sempre assistito dall’amico Tancredo, una sorta di Sancio Panza che gli serve da suggeritore intellettuale e avvocato del diavolo – non soltanto resisterà alla tentazione di disfarsi di quel materiale ma finirà anche per venirne risucchiato. Intraprenderà un fantasmagorico viaggio nel tempo e nello spazio immergendosi nelle vicende di una famiglia a dir poco atipica.

Sparizioni a catena
Il padre, un fotografo israeliano conosciuto per certe sue manie e per aver ritratto i più insigni esponenti della controcultura newyorkese, scompare senza lasciare traccia. La madre, nota modella e attrice in gioventù, è anch’essa affetta dal vizio della sparizione; riappare a distanza di anni con un nome nuovo per dichiararsi un’opera d’arte e inventare false notizie da far circolare sui mezzi di informazione allo scopo di condizionare l’andamento dei mercati azionari.

Il tema della sparizione fa il paio con quello del mimetismo quale scudo di sopravvivenza a cui i sapiens ricorrono in maniera spesso istintiva, né più né meno come altre specie animali, e sempre allo stesso scopo: confondersi all’ambiente, passare inosservati agli occhi del nemico. Il romanzo stesso funziona ovviamente alla maniera di un dispositivo mimetico, si presenta come un’opera di finzione narrativa ma assume i caratteri del testo speculativo, più mirato all’indagine e all’osservazione scientifica che al racconto vero e proprio.

Quali siano i riferimenti lo si è in parte già detto; a Sebald e Piglia possono tranquillamente aggiungersi il Bolaño di 2666, Borges e più in generale gli scrittori che sono anche un po’ pensatori e viceversa, i pensatori che sono anche scrittori. In Colonel Lágrimas, suo romanzo d’esordio da noi ancora inedito, Fonseca citava anche Bernhard e in particolare il ritratto trasfigurato che lo scrittore austriaco fa di Wittgenstein in Correzione, giungendo alla conclusione che il significato sia qualcosa che nasce dall’ossessiva e all’apparenza insensata ricerca di un’idea.

Una ricerca folle che è possibile trovare nel capitano Achab, nel Michael Kohlhaas di Kleist, nel José Arcadio Buendía di Cent’anni di solitudine, nel Luca Belladonna di Piglia, in Tristram Shandy e naturalmente in Don Chisciotte, che di tutti questi cercatori letterari di idee somiglianti a rovinosi castelli di carte è forse il capostipite. Idee improbabili come quelle di un romanzo di storia naturale, destinate a fallire sì, ma con un certo splendore come questo Museo Animale.

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