Lo spettacolo è finito. Anzi, l’avanspettacolo di quart’ordine. In un Paese credibile Carlo Tavecchio da un pezzo non sarebbe il capo del calcio italiano, della Figc. Di più: non ci sarebbe proprio arrivato, dopo le gaffe di stampo razzista nella campagna elettorale per l’ascesa alla Figc un anno e mezzo fa, gli Optì Pobà che arrivavano nel calcio italiano e vanno in campo al posto dei ragazzi di casa nostra. Stavolta è toccato agli ebrei, gli «ebbreacci», agli omosessuali da cui tenersi alla larga, nella chiacchierata di qualche mese fa con il direttore del sito SoccerLife, Massimo Giacomini, che ha pubblicato il contenuto mandando su tutte le furie lo stesso Tavecchio che grida al complotto ai suoi danni.

E poco importa se davvero, come dice Tavecchio si tratta di una ritorsione per i negati contributi editoriali a SoccerLife da parte della Federcalcio. La violazione della deontologia professionale, se si è trattato di un trappolone da parte di un collega vendicativo per risorse federali non arrivate a destinazione (la sua tasca) viene dopo la questione principale: un personaggio del genere non può rappresentare il calcio italiano nella sua totalità, non può essere il presidente di tutti, di un movimento da un milione e mezzo di tesserati, di ragazzini che corrono dietro a un pallone. Tavecchio finge di non capire, parla d’altro, tra ricatti, sgambetti, agguati. La realtà spiega che non è presentabile. Anche se non fosse – come si ostina a ripetere, minacciando querele -, né razzista né contro la comunità omosessuale ma solo frainteso per discorsi da bar.

Il punto è che il presidente della Figc non può fare discorsi da bar, uno, due, tre quattro volte. Perché non va dimenticato che le offese di Tavecchio ai danni di ebrei e comunità gay vengono qualche mese dopo le sue sentenze sulle donne che sarebbero handicappate nel favoloso mondo del pallone, i libri scritti e messi in conto per migliaia di copie alla Federcalcio.

Da più parti arriva la voce degli indignados, che la misura sarebbe colma, che il presidente Figc dovrebbe procedere a un passo indietro. Di sicuro il presidente del Consiglio Matteo Renzi non avrà apprezzato l’ultima tranche del Tavecchioleaks. E c’è chi come il capo del Coni Giovanni Malagò, in una posizione scomoda perché impegnato in prima persona assieme a Luca Cordero di Montezemolo per i Giochi di Roma 2024, ha dovuto spiegare di non poter in pratica far nulla dal punto di vista giuridico, di non poter commissariare la Figc, anche se lo farebbe volentieri. Perché sa che queste storiacce contribuiscono a rovinare l’immagine dello sport italiano nel mondo, qualche settimana dopo che risultati sul campo, tipo il successo di Flavia Pennetta allo Us Open, avevano ridato una mano di vernice al sistema.

E in attesa di capire come andrà a finire la faccenda, è obbligatorio un passaggio sulle enormi colpe da addebitare al movimento calcio, in poche parole a quelli che hanno fatto arrivare Tavecchio sullo scranno, dopo una carriera piuttosto controversa, la gestione padronale della Lega dilettanti e un ruolo – sebbene non da protagonista assoluto – nella Lega degli insuccessi dell’era Giancarlo Abete, tra scandali, partite truccate, Calciopoli. Votato a larga maggioranza tra logiche clientelari, presidenti di A oppure dirigenti dal peso specifico nei corridoi della Lega, Tavecchio è la polaroid a colori del calcio italiano: arretrato, piegato su se stesso, in mano ai vari Lotito, Galliani, Preziosi che lo hanno fatto arrampicare lassù. È l’uomo sistema, la macchina di voti.
Forse la sua corsa, già annunciata, alla rielezione tra un anno sarà compromessa, forse non si candiderà. Ma il problema non sarà risolto finché le istituzioni del pallone, che pure non hanno fatto una gran figura con la vicenda Infront e su alcune squadre di Serie A, saranno così deboli da consentire a personaggi del genere di sedersi al ponte del comando.