André Chastel definì Carlo Scarpa sulle pagine di Le Monde «il più grande allestitore di mostre d’arte lì – ovvero in Italia – e forse in tutta Europa». Era il 1975 quando lo storico dell’arte francese dichiarò quale benefico rinnovamento aveva subito la museografia grazie a Scarpa. Tre anni dopo l’architetto veneziano morì a Sendai, in Giappone, a causa di un incidente. È sempre, quindi, necessario tornare a Scarpa, soprattutto quando nuove indagini raccontano, come quella di Gianluca Frediani, un capolavoro della sua abilità di museografo: La Gipsoteca Canoviana di Possagno (Electa, pp. 144, euro 42,00, fotografie di Alessandra Chemollo). Perché se c’è una definizione di cui l’architetto veneziano andò sempre orgoglioso era proprio quella di museografo, anzi «mezzo museografo». Prima, però, si considerava «un uomo molto umile, molto semplice», divenuto uno specialista perché il «mondo moderno ama gli specialisti», anche se per lui era meglio diffidarne.
Il semplice è il valore atmosferico della Gipsoteca (1955-’57), originato da un lungo processo che va dagli allestimenti di mostre alle biennali d’arte veneziane (dal 1948 al 1972, tranne due assenze) fino al progetto non realizzato per il Musée Picasso nell’Hôtel Salé di Parigi (1976), attraverso le superbe prove di Palermo (Palazzo Abatellis, 1953-’54), Verona, (Museo di Castelvecchio, 1956-’64), Venezia, (Gallerie dell’Accademia, 1945-’49; Fondazione Querini Stampalia, 1961-’63) e molte altre.
Philippe Duboÿ, architetto, storico e assistente di Scarpa nel progetto parigino, scrive nel suo bel saggio Carlo Scarpa. L’arte di esporre (pubblicato di recente da Johan & Levi) che la componente scarpiana della semplicità deriva da Le Corbusier – «la grande arte vive di mezzi poveri» –, quel Le Corbusier portato ad esempio nel numero monografico di «Art d’Aujourd’hui» (n.1, 1950) dal curatore Willem Sandberg nel suo saggio dedicato all’«organizzazione di un museo dell’arte d’oggi»: «Questo architetto che si definisce “un po’ bizantino” – scrive Duboÿ a proposito di Scarpa – traspone le nuove tradizioni proprie del Movimento Moderno in una messa in opera semplice dei materiali della tradizione artigianale veneziana».
Altrettanto semplice, quasi un manifesto, è la soluzione spaziale che Scarpa concepisce a Possagno quale ampliamento del museo preesistente di Francesco Lazzari (1834-’36) in occasione del bicentenario della nascita di Canova. Frediani, attraverso una lettura critica dei disegni (in special modo gli schizzi) e un’analisi diacronica circostanziata delle modificazioni del complesso canoviano (Casa e Gipsoteca), evidenzia con ragione che negli anni cinquanta l’architetto veneziano non è «ancora abbagliato dalle variegate influenze orientali». Il suo repertorio attinge ancora al rigore e alla purezza dei maestri della modernità architettonica – Le Corbusier e Wright prima di Hoffmann –, misurato dentro le multiformi suggestioni e idee provenienti dalla tradizione veneta. Il volume trapezoidale a punta che Scarpa colloca di fianco all’aula neoclassica ottocentesca del museo canoviano, connessi da uno «spazio di transizione» e ingresso, è il risultato di un processo difficile teso a ridurre tempi e costi, ma che permette di focalizzare le invenzioni scarpiane a pochi ma fondamentali ambienti. Dal basso verso l’alto: atrio, ex scuderie, «sala alta», «sala a siringa», vasca (immancabile).
All’inizio della fase progettuale c’è per Scarpa la sfida di come articolare un percorso di visita complesso tra il volume centrale della Gipsoteca (longitudinale) e i nuovi volumi dell’ampliamento (trasversale). Il modello tipologico gli sarà offerto dalla tradizione: Villa Lippomano a San Vendemiano (inizi XVII sec.) attribuita a Baldassare Longhena. È interessante come sullo schema planimetrico di questa villa del trevigiano Scarpa insista a far funzionare per similitudine la composizione dei suoi corpi aggiunti a quello centrale della Gipsoteca. Nel 1972, in una delle poche interviste Rai (ora in Duboÿ), Scarpa si rammaricava di trovarsi «sempre dei fatti costruiti» chiedendosi con un po’ di scherno come avrebbe fatto ogni volta a trasformarli in museo. Sapeva di avere «assorbito osmoticamente» fin troppo bene la lezione dei suoi maestri moderni e le tecniche antiche della sua terra, e ciò gli era sufficiente.
Solo Bruno Zevi colse un aspetto che l’architetto veneziano non pretese mai di rilevare poiché in rapporto così stretto e amicale con direttori di musei, storici dell’arte e soprintendenti. Alla domanda di quali qualità egli possedesse che non avessero altri architetti, Zevi disse che «Scarpa ama la pittura e la scultura», «caso quasi unico» in Italia. Con le parole dello storico romano possiamo affermare che in un «paese burocratizzato», come è rimasto il nostro, dobbiamo «gioire» che almeno per una volta «i meriti reali» siano prevalsi sui «titoli accademici», e che le opere di Scarpa-museografo, come il capolavoro della Gipsoteca Canoviana e i suoi straordinari allestimenti, siano lì a dimostrarlo.