C’è una foto che ritrae Carlo Melograni, scomparso ieri all’età di 97 anni, in visita con i suoi studenti a Londra nel 1974 al complesso londinese di edilizia popolare di Robin Hood Gardens. Guarda di lato, lontano, mentre i suoi studenti sorridono. Saprà, circa quarant’anni dopo, che delle residenze dei coniugi Alison e Peter Smithson si è salvato solo un lacerto, dopo che ne fu decisa la demolizione. Eppure, agli occhi della sua generazione, uscita viva dalla guerra, quell’esperimento era considerato uno tra i più rappresentativi delle politiche del welfare nel settore della casa.
In quell’episodio inglese, irrimediabilmente scomparso, Melograni trovava soddisfatti i bisogni della società di massa e anche una conferma che l’architettura non potesse essere disgiunta dai fattori sociali e politici del costruire la «città dell’uomo». Riguardo questa idea progressista dell’agire in qualità di architetto egli fu tra gli interpreti più fedeli e intransigenti, oltre a essere stato un polemico protagonista del dibattito sull’architettura della ricostruzione, che considerò «stravagante» e «eccentrica», ad esempio a Roma, nei quartieri popolari dell’Ina-Casa.

PER LUI IL PROGETTO moderno, che vide progressivamente eroso per cinismo e cattiva coscienza, non poteva assimilarsi ai processi della modernizzazione, che vedrà affermarsi egemoni nel corso degli anni successivi sostenuti dalle leggi della rendita e dalle «assenze della politica».
Carlo Melograni comprese presto quali interessi particolari sostenessero l’espandersi della città e la loro coercitiva e aggressiva forza d’azione, diretta non solo nei centri storici, ma anche nelle aree periferiche.
Cercò in tutta la sua lunga carriera di architetto e d’insegnante di contrastare tutto ciò, pure dopo quel periodo di «tensione sociale» che per lui durò fino alla metà degli anni Cinquanta, quando neppure trentenne entrò nel Consiglio dell’istituto nazionale di Urbanistica (1952 -56). In seguito, coniugò impegno professionale e militanza politica nelle fila del Pci, che rappresentò al comune di Roma dal 1960 al 1966 in qualità di consigliere di opposizione.
All’incirca nello stesso decennio condividerà la sua attività professionale con Leonardo Benevolo e Tommaso Giura Longo, che proseguirà dopo il 1971, solo con quest’ultimo e con Maria Letizia Martines. Con loro realizzerà a Ferrara nel 1975 il liceo Ariosto, ispirato per l’altezza minima alla scuola dei danesi Knud Friis ed Elmar Mollke a Risskov, mentre per la copertura a shed alla Fondazione Maeght a Saint Paul de Vence del catalano Josep Lluís Sert.

DAL LICEO FERRARESE, ideato come un «grande padiglione in un giardino», la ricerca sullo spazio collettivo e dell’abitare, diverrà per Melograni un ambito di ricerca dettato dalle richieste dell’editoria di settore e delle istituzioni pubbliche. Risalgono agli anni Ottanta i numeri monografici della rivista Edilizia popolare dedicati alle sue ricerche sulle tipologie residenziali, mentre agli anni Novanta la serie dei «prototipi» di scuole per l’infanzia nei quali confluiranno esempi nordeuropei e giapponesi.
Più che al lavoro professionale è però all’insegnamento che Melograni dedicherà il suo maggiore impegno. Abilitato nel 1959 in Urbanistica avrà il suo primo incarico alla facoltà di Architettura di Palermo (1969- 1971), e poi la cattedra di Progettazione architettonica a Roma nel 1976, terminando la sua carriera accademica nel 1997 come preside dell’ateneo di Roma Tre.
Lo scorso anno è stato rieditato il suo saggio Progettare per chi va in tram (Quodlibet) dove nella premessa si compiaceva di essere stato definito un architetto «rassicurante» da uno studente e uno di quelli che «non compaiono nei libri di storia».
Al tratto così rispettoso corrispondeva, però, una vis polemica e una lucidità di giudizio che mancherà alla cultura progettuale italiana, proprio ora che è più urgente «ripensare da capo l’avvenire della città».