Lettura concettualmente densa e rigorosamente analitica, l’ultimo piccolo libro di Carlo Galli, Le forme della critica (Il Mulino, pp. € 25,00) riunisce lavori degli ultimi vent’anni che interrogano alcune delle questioni fondamentali della disciplina. Sono pagine in cui emerge tutta l’eredità che l’autore deve al pensiero negativo, mediato da Schmitt e Nietzsche.

Il tentativo è presentare la continuità di una ricerca scientifica che «vorrebbe definirsi matura», mostrando in actu exercitu quello che Galli chiama «realismo critico». Il concetto di critica sta infatti al centro del libro: in quanto categoria costitutiva del moderno, la critica vede il suo stesso esercizio a comprometterne la legittimità. L’odierna «crisi della critica» rappresenta per Galli l’esito di quel movimento di autoaffermazione della ragione – come produzione di ordine – che costituisce l’essenza stessa della modernità.

«La parabola della critica verso l’immanenza» conduce al suo collasso. Di qui la necessità di «una critica che aderisca all’esperienza reale senza annullarvisi». Assumere la posizione di un «realismo critico» significa revocare la pretesa di legittimità di ciò che è già dato, esercitando un «pensiero in movimento» che, pur rinunciando al sistema, sappia porre in luce il nesso sistematico della società.

L’esigenza di un recupero del rigore dialettico, teso tra aderenza all’effettuale e incertezza costitutiva della prassi, non implica però per Galli la riproposizione di una critica dialettica, ma piuttosto il recupero critico del concetto di teologia politica, tra trascendibilità e potenza dell’intero.

Al centro, la «questione delle questioni», ossia quella razionalità priva di ragione che è «l’ordine di crisi permanente» del capitalismo e del neoliberismo, apparentemente inscalfibile eppure sovranamente contingente.