Scrivere una biografia è un atto di arbitrarietà assoluta, ma anche un tradimento annunciato, in definitiva un atto temerario di amore morboso, incontenibile. Perché è qualcosa di sfuggente, intangibile, persino per chi la costruisce e ne padroneggia solo una parte infinitesima della sua forma complessa, una lotta impari contro il caos, i mille deragliamenti, il caso, le coincidenze, a cominciare dall’atto di nascita che ne designa un destino storico e geografico come un sigillo.

SCRIVERE LA BIOGRAFIA di uno scrittore non significa solo ricostruire «i fatti», la cronologia, ma dare alle sue opere un giudizio critico nella storia. Cosciente di tutto questo, e dovendo entrare nei panni di uno dei più vitalistici e caleidoscopici scrittori italiani, Alessandro Raveggi, professore alla New York University e autore di Grande Karma-Vite di Carlo Coccioli (Bompiani, pp. 300, euro 18) per restituircela sceglie la fiction, come se potendo lavorare su un ampio margine d’invenzione dal vero, mescolando più generi, riuscisse meglio a padroneggiare la trama esistenziale di uno scrittore dalla fisonomia talmente ubiqua, romanzesca, impareggiabile come pochi nel costruire un’auto-mitologia tra le più riuscite del Novecento.

TANTO CHE IL TITOLO del libro è lo stesso di un testo inedito di Coccioli, la spia anche di un bricolage metaletterario, quello di rimettere in circolo e in dialogo dentro la narrazione, la sua opera edita. L’escamotage, la molla narrativa, è quando il Prof. Emerito Paolo Merendoni affida al suo studente Enrico Capponi una tesi di laurea sull’autore dello scandaloso romanzo Fabrizio Lupo, con borsa di studio, e l’ignaro dottorando comincia il suo «viaggio dissonante» e parte per il Messico, ultima residenza terrena dello scrittore livornese, morto nella sua capitale il 5 agosto 2003.
Raveggi-Capponi arriva nella grande città metropolitana e comincia la sua ricerca lì proprio dove inizia il romanzo, e indaga la vicenda umana e letteraria di uno scrittore nato in Toscana, presto al seguito del padre ufficiale nella Tripoli italiana, nella villetta della Città Giardino, vissuto molti anni a Parigi, dove lo chiamano Cocciolì, incontra la trentenne Lola, Dolores, Don Giovanni, «come se ci trovassimo in un racconto di spie», scrive dell’enigmatico signore che gli consegna un faldone con le sue fotografie, vede il «libraio talpa» che gli rivela un’altra sua identità fittizia, Hari Bol, «colui che canta il nome di Dio», l’italiano che la domenica recitava il kirtan, la preghiera dedicata a Krishna, il fedele amante e poi assistente Javier.

QUANDO SI IMBATTE nel mescal, una specie di grappa ma «con retrogusto affumicato», riaffiora dalla memoria Uomini in fuga, il «parlamento di disperati» che lo scrittore, fondatore degli Alcolisti anonimi, aveva dedicato ai santi bevitori. Coccioli ebbe molta fortuna editoriale a Parigi (anni che l’autore ricostruisce nei capitoli biografici), sotto l’ala di Malaparte e Cocteau, e dove Enrico incrocia la sua futura moglie Dina, che entra anche lei nel palinsesto narrativo attraverso un diario. Fu un outsider assoluto, partigiano, animalista, grande viaggiatore (visse anche nel Texas), inviato speciale del Corriere della Sera, abbracciò l’ebraismo, il buddismo, sfiorò il Premio Campiello.

RAVEGGI MESCOLA con sapienza, servendosi di una scrittura brillante, vitalistica ed espressiva, a volte volutamente sopra le righe, immaginazione letteraria, documenti d’epoca, immagini della vita, epistolari e brani di romanzi, e naturalmente la narrazione concitata e al presente dentro il contesto corporale e nell’immaginario potente di Città del Messico, che diventa lo scenario di una doppia vita, quella del biografo che cerca di penetrare i luoghi intimi di Carlo Coccioli, stupefacenti e tenebrosi, sembre in bilico tra racconto dal vero e finzione, il conio più autentico e la sfida riuscita di questo libro che ha anche la forma di un romanzo di viaggio e di avventura molto avvincente.
Il romanzo di formazione di uno scrittore-critico, quel presunto «paleontologo di fretta», e un «inseguimento», come lo chiama l’autore, durato anni e 20mila chilometri «tra aerei transatlantici e camminate urbane verso i luoghi e confessionali» cercando di decifrare il suo «sviamento», l’essere «più sfuggente di una nuvola» come lo disegnava Cocteau, nella sua arte di inventare la vita.