Nessun fiato sospeso. Il presidente in pectore, dal 2017 numero uno dell’Assolombarda, Carlo Bonomi, diventerà il 31° presidente di Confindustria. E’ stato designato dal Consiglio generale doppiando nei voti, 123 contro 60, l’altra concorrente, Licia Mattioli, che si è poi lamentata di non avere ricevuto tutti i consensi promessi. Il voto segreto è un’incognita non solo nelle aule parlamentari.

Questo esito – hanno votato tutti gli aventi diritto senza astenuti o schede bianche – testimonia la volontà della Confindustria di tornare ad agire in prima persona negli incerti scenari del nostro paese e non solo. Per farlo ha bisogno di una rappresentanza forte e diretta. Il partito della Confindustria non esiste, è la Confindustria che vuole farsi partito, con modalità diverse da quelle delle formazioni politiche, ma forse più efficaci.

Non molti mesi fa la Confindustria aveva cullato anche un’altra ipotesi. Quella di favorire la nascita di una nuova forza politica che potesse rappresentare i suoi interessi più da vicino e in modo più completo. Da qui è probabilmente nata la spinta alla scissione da destra del Partito democratico.

Ma il percorso di Renzi e della sua creatura, Italia Viva, si è finora mostrato tutt’altro che trionfale, stando alle vicende dello scontro politico e ai sondaggi. D’altro canto è tutto il tessuto della politica italiana che si presenta lacerato e slabbrato e il nuovo presidente chiarisce che rappresentare le imprese vuole dire tenere la porta aperta a tutti i partiti, assumendo però il governo quale unico interlocutore prioritario e unitario.

In effetti Matteo Renzi ha dato fiato alle richieste confindustriali, come da ultimo alla riapertura delle attività produttive, e prima ancora con l’attenzione ostentata al mondo delle imprese nella definizione dei decreti economici del governo. Le prime dichiarazioni di Bonomi sono andate esattamente in quella direzione.

Ovvero “Confindustria deve essere al centro del tavolo in cui la politica decide il metodo delle prossime riaperture delle attività economiche”; bisogna affrettare i tempi del loro finanziamento (Confindustria chiede 30 miliardi entro giugno, ma certo non si fermerà lì), perché “fare indebitare le aziende non è la strada giusta”; va scartata qualsiasi ipotesi di un salario minimo per legge; vuole una sorta di “patto pubblico-privato” dove però la parte preponderante sarebbe la seconda, dal momento che solo la produzione fornisce reddito e lavoro “non certo lo Stato come molti vorrebbero”.

E infatti punta il dito contro un presunto dilagante spirito anti-industriale.

Carlo Bonomi è un piccolo imprenditore, proprietario di un’azienda con otto addetti nel settore medicale, che però nella sua formazione ha inglobato l’esperienza manageriale di grandi strutture produttive nazionali e internazionali. A tutti gli effetti è un funzionario-manager del moderno capitalismo che stigmatizza la contrapposizione tra grandi e piccoli, tra industria e servizi e persino tra Sud e Nord del paese. A Davos aveva affermato che bisogna “inserire le nostre imprese nelle sedi in cui si disegna il futuro della manifattura globale”.

Bonomi si presenta quindi come l’alfiere di quello che è stato definito il “quarto capitalismo” ove non dominano più le grandi imprese, che peraltro in Italia sono scomparse in più comparti, quanto le medie e le piccole, legate a filiere che non hanno confini nazionali, capaci di muoversi nei diversi contesti socio politici con la dovuta agilità, ma anche con un baricentro territoriale ben piantato nel fitto tessuto produttivo del triangolo Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna (le regioni, non a caso, che vogliono l’autonomia differenziata).

Questa visione si mostra attenta ai nuovi settori che si aprono come quel Green New Deal che da Davos, passando per la Commissione europea, ci porta fino al Manifesto di Assisi, ove la modernizzazione di industria 4.0 vorrebbe unirsi alla responsabilità sociale dell’impresa, alla sensibilità ambientale e a un’attenzione verso il messaggio cristiano. Più parole che fatti, come sappiamo. Ma ci fanno capire che la nuova mano forte della Confindustria non può essere definita nella contrapposizione tra falchi e colombe (queste ultime poi dove sarebbero?).

Vuole giocare le sue carte in Europa e nel mondo, per guidare a modo suo la fase successiva all’attuale recessione. Un avversario non da poco.