Due decolleté con laccetto, in mostra il collo del piede, spuntano da una poltrona girevole a forma di sfera. Un lungo bocchino tra le dita, ecco la diva nascosta: parrucca biondo platino a caschetto con frangia, folte ciglia finte, vestito di lamé. Chi è? Ci vuole qualche attimo a riconoscerla, abituati a pensarla come il simbolo del balletto classico. Eppure è lei. Carla Fracci, a dirla con Lina Volonghi non «la romantica, la fragile, la smaterializzata, un’altra donna. Non il tutù, non la calzamaglia, ma una creatura moderna, imprevista, tutta da scoprire». È il 1967, sulla Rai in bianco e nero va in onda Scarpette rosa, regia tv di Vito Molinari che nel 1954 ha diretto la trasmissione inaugurale della rete. Carla Fracci, spigliata nel suo tubino corto, danza, abbracciata con Renato Rascel, in un fantastico salotto pop. Con lei nel musical Scarpette rosa, firmato da Molinari insieme a Filippo Crivelli, ci sono Tino Carraro, Walter Chiari, Giuseppe di Stefano, Franca Valeri. Volonghi è una giornalista che deve portare a casa l’intervista con la giovane e divina ballerina, nel cast c’è persino Mina che insieme a Carla danza e canta in un atelier di moda, duettando sul mettere o no la minigonna: un’altra scena cult, recuperabile sul web.
Ci piace partire da questa stravagante immagine d’archivio Rai per focalizzare l’attenzione su Carla Fracci, icona del balletto, classe 1936, curiosa da sempre verso altri generi e mezzi, artista battagliera e spiritosa sotto l’aria di eterna romantica, grandissima lavoratrice: a lei è dedicato Carla, primo film sulla vita della ballerina, coprodotto da Rai Fiction – Anele, liberamente ispirato all’autobiografia Passo dopo passo – la mia storia (Mondadori, 2013). Nei panni di Fracci, Alessandra Mastronardi, volto noto del cinema e della tv, una curiosa somiglianza nei tratti con la ballerina.
«Alessandra è una donna deliziosa oltre a essere una grande attrice – racconta al telefono Carla Fracci -, è una bella scelta, come del resto mi piace tutto il cast (Nureyev è l’attore francese Léo Dussolier, figlio di André, ndr.). Mi sento gratificata, lusingata dal fatto che si sia deciso di fare una fiction su di me e che sia girata anche dentro la Scala, dopo Roma e Orvieto. Siamo stati in teatro per le riprese nei giorni scorsi, dove ho iniziato a studiare balletto a nove anni, quando la Scuola di ballo era nelle sue sale, un’emozione. Tra le scene girate a Milano anche la rimessa dei tram, dove lavorava mio padre Luigi, tranviere (nel film Pietro Ragusa, la madre è interpretata da Maria Amelia Monti, ndr.)».
La Scala per la prima volta ha aperto i suoi spazi alla realizzazione di una fiction: una bella soddisfazione per l’étoile italiana tornata con questo progetto nel teatro in cui si presentò all’audizione per la Scuola quasi per caso. A suggerirlo fu un’amica di famiglia: aveva visto la Carlina ondeggiare a ritmo di musica al Ragno d’Oro di Porta Romana, Circolo ricreativo dell’ATM dove i Fracci andavano a ballare.
Messa in onda prevista su Rai1 il prossimo autunno, 100 minuti di film per la regia di Emanuele Imbucci, con consulenza della stessa Fracci con il marito Beppe Menegatti e la storica collaboratrice Luisa Graziadei, Carla parte dal secondo dopoguerra, con Fracci bambina, poi adolescente e giovane donna nella Milano degli anni ‘50-‘60. Storia di una donna che non rinuncia alla possibilità di farsi una famiglia e di avere un figlio all’apice della carriera, un’artista internazionale determinata e coraggiosa, un simbolo femminile.

Signora Fracci, il libro «Passo dopo Passo», a cui è liberamente ispirata la fiction, ci racconta di una donna che non ha mai perso il contatto con le proprie radici, con la realtà delle cose.

Sono cresciuta in campagna, a contatto con la libertà, con i contadini, con la terra, con gli animali, con persone care, è un bagaglio di affetti, di esperienze, che ti rimangono addosso e che non mi hanno fatto perdere la dimensione di chi si è, delle proprie radici. I mei erano dei lavoratori, padre tranviere, madre operaia, non hanno mai interferito nella mia carriera, mia mamma però mi diceva: «se devi avere successo, ricordati che te lo devi guadagnare». E io ho lavorato, lavorato. Ho seguito gli insegnamenti dei miei maestri alla Scuola di Ballo della Scala, dove ho cominciato, la sig.ra Bulnes, con cui ho terminato gli ultimi tre anni di studio, la sig.ra Martignoni, che fu la mia prima maestra, Vera Volkova, che voleva portarmi con sé in Danimarca. Tantissimi sono gli incontri che hanno segnato la mia vita e a cui sono riconoscente, Margot Fonteyn, Yvette Chauviré, Alicia Alonso a Cuba, il coreografo John Cranko, i miei partner Erik Bruhn, Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Gheorghe Iancu, e poi gli italiani, Paolo Bortoluzzi, Fascilla, Pistoni…

Ha interpretato di tutto.

Sì, e non solo i balletti del grande repertorio ottocentesco come Giselle. Tanti coreografi hanno creato su di me, John Cranko, che nel 1958, ero giovanissima, firmò per me e con la Scala la sua prima versione di Romeo e Giulietta, al teatro Verde sull’Isola di San Giorgio a Venezia, John Butler con la sua Medea, a Spoleto, nel 1975, partner Baryshnikov, Francesca da Rimini, ideato da Mario Pistoni. Ho attraversato moltissimi mondi, ho danzato ovunque. La prima volta a New York fu con Erik Bruhn. Invitato dall’American Ballet Theatre, disse: «vengo a ballare solo a patto che con me ci sia Carla Fracci». Sono poi diventata permanent guest dell’ABT, la compagnia avrebbe voluto che io stessi sempre in America, ma io nei primi anni Sessanta avevo deciso di essere indipendente, avevo lasciato la Scala, volevo ampliare le mie esperienze. Giravo da sola, non con una mia compagnia, avevo molti inviti e ho dovuto imparare a inserirmi ogni volta in una situazione diversa, altri ballerini, differenti partner, è stato bello, la scoperta continua di un mondo meraviglioso. Non ho scelto io la danza, sono stata portata da bambina alla Scala, sono dovuta diventare curiosa di quel mondo, della nostra professione, un lavoro a cui dedicarsi, perché se non ti dedichi significa che non sei davvero interessato e allora, vattene, quella è la porta.

Tante anche le apparizioni al cinema («Storia vera della signora delle Camelie» di Bolognini con Isabelle Huppert e Gian Maria Volonté, «Nijinskij» di Herbert Ross con Jeremy Irons), e in tv, in Rai, da «Scarpette rosa» a «Verdi».

In Verdi interpretavo Giuseppina Strepponi. L’attore Ronald Pickup era «il nostro» Giuseppe Verdi, impeccabile. È scomparso pochi giorni fa, non si è detto quasi nulla da noi, che dispiacere. Il punto è che nel teatro, nel cinema, in tv, ci vuole creatività. Quando facevo la Strepponi, il regista Renato Castellani mi diceva che non avevo bisogno di grandi indicazioni: sapevo muovermi, sedermi al pianoforte con un vestito d’epoca, era per me naturale. In tv ho danzato di tutto, con le Kessler, con Mina, ho recitato con Franca Valeri, con Giuseppe di Stefano, la versatilità è importante. Sono stata fortunata nella mia vita, ma è anche vero che la fortuna me la sono fatta da sola.

Mercoledì prossimo, il 17 marzo, Rudolf Nureyev avrebbe compiuto 83 anni. Invece se ne andato nel 1993. Alla Scala è slittata la registrazione del Gala «Omaggio a Nureyev», prevista online su youtube e FB a fine febbraio, siamo in attesa di una nuova data. Cosa ci ha lasciato, Nureyev, con cui lei ha tanto danzato?

Ancora una volta, lo stile! Perché ogni balletto, ogni epoca ha il suo. Torno con la memoria al suo Schiaccianoci, difficilissimo. Quando lo ha portato in Scala, io ero incinta di Francesco, ma la ripresa successiva volevo danzarlo. Non me lo avevano fatto provare, io ero delusa, ma Rudi disse: «lo voglio fare con Carla». Me lo ha insegnato in pochissimi giorni, coreografia complicata come tutte quelle riviste da Nureyev, Don Chisciotte, Romeo e Giulietta, ogni nota una passo. Il quinto giorno sono andata in scena. Rudi mi disse: «hai visto cosa vuol dire avere coraggio?»

Una bella determinazione…

Oh sì, Rudi se non si sentiva seguito, se non si eseguivano le cose come diceva poteva anche lasciar cadere la ballerina! Ma aveva deciso di dimostrare che potevo andare in scena e io l’ho fatto. Chissà perché non mi fecero provare, sono cose che succedono in teatro, come in tutti i settori, ci sono quelli che sono con te, quelli contro, le solite storie.

A gennaio il nuovo direttore del Ballo del Teatro alla Scala, Manuel Legris, l’ha invitata a tenere due masterclass con gli artisti del teatro su «Giselle», entrambe online ancora oggi sugli account social della Scala, il balletto è andato poi in onda su Rai5 (è ancora su Raiplay) con la sua supervisione. Tra la fiction e le masterclass un periodo di grandi ritorni nel suo teatro. Come è andata?

Sono grata a Manuel legris per avermi invitato. Le masterclass hanno avuto un grande successo, sono state molto seguite, tante le reazioni emozionanti che ho visto nei giovani ballerini della Scala, mi ha toccata l’accoglienza calorosa dei tecnici, di tutto il teatro, il lungo applauso. Ho sentito rispetto e gratitudine. Ho ritrovato alcuni danzatori che erano giovanissimi nel 1999, quando bruscamente il rapporto con il teatro fu interrotto, e che ancora non sono andati in pensione, e altri nuovi, giovanissimi. Sono venuta tante volte in teatro a vedere spettacoli, ma in sala, a lavorare, mai dal ’99. L’emozione di rientrare in sala dopo tanti anni è stata grande. In molti mi chiedono perché andò così vent’anni fa. Non ho risposta, mi avevano proposto di dirigere il ballo, volevo solo lavorare, ma pensiamo all’oggi: sono felice di questo ritorno, per cui ringrazio anche il nuovo sovrintendente Dominique Meyer, alla Scala ho passato una vita. Spero che queste masterclass possano avere un seguito, sono importanti per i giovani ballerini di oggi. Ci sono titoli come Giselle, come La Sylphide, in cui la tecnica c’è ma non va esibita, mostrata, come in altri balletti, questo è il segreto. I titoli romantici sembrano facili, perché la tecnica è nascosta, è una questione che riguarda lo stile, qualcosa che oggi si sta perdendo. Si pensa che la tecnica sia sempre alzare la gamba a 120°/180° e fare non so quante pirouettes, ammirevole, ma quando si deve affrontare un titolo come Giselle, le cose sono molto diverse. Bella Addormentata ha uno stile, La Sylphide ne ha un altro. I ballerini di oggi devono capire che è fondamentale sapere cosa si interpreta, cosa il gesto sta dicendo in quel preciso istante, c’è sempre un pensiero. In ogni balletto non sei più tu, ma diventi quello che porti in scena, e come ho già detto ci vuole creatività. Non mi piaceva quando durante la scena della follia del primo atto, la madre toglie dall’acconciatura di Giselle le forcine per sciogliere i capelli. Ne ho parlato con mio marito. Perché non una sola ciocca? E così ho fatto. Erano gli anni Sessanta. Quando Erik Bruhn rimontò il balletto per il National Ballet of Canada, a Toronto, insegnò la mia follia. E questo è molto bello. Trasmettere agli altri, imparare dagli altri.

Nel suo libro lei scrive: «il teatro esiste grazie alla famiglia di operai del teatro; coloro che operano». Oggi il teatro e i suoi lavoratori sono fortemente penalizzati dalla pandemia, cosa pensa della possibile riapertura?

Sarebbe tragico se i teatri non riaprissero, certo il momento è davvero difficile. Ripenso a tanti anni fa, quando facevo di tutto per portare la danza in ogni parte d’Italia, nei teatri tenda, negli spazi di provincia, nelle carceri. La situazione era molto diversa: ogni teatro aveva la sua compagnia, si proponevano spettacoli, mi portavo dietro grandi partner, c’erano tanti sovrintendenti pronti a aiutare il balletto, Bologna, Firenze, Torino, Verona, quante compagnie in Italia sono state chiuse, smantellate. Quanti talenti perduti…

Un appello al ministro?

Quanti appelli ho firmato. Ma parlo da anni e ripeto sempre le stesso cose, divento anche noiosa. Non c’è più nulla da capire, è una questione di volontà.

Per chi è preoccupata oggi?

Per i giovani. Ho due nipoti di 16 e di 13 anni, mio figlio vive a Roma, li vedo attraverso il computer. Sono una nonna fortunata, sono molto bravi. Ma mi intristisce pensare agli adolescenti, ai giovani che stanno perdendo le cose più belle della loro età, le scoperte, i primi amori. Speriamo tutti di poter tornare presto alla normalità, io mi sono già vaccinata, desideriamo poterci dare una stretta di mano, un abbraccio, un bacio. Bisogna stare attenti e non lasciarci andare, avere speranza.

Come diceva sua mamma in fondo…

Eh sì. La vita è difficile, si fa tanta fatica e per affrontarla ognuno di noi deve trovare la propria speranza.