Immaginate di trovarvi in un paese europeo di cui non conoscete la lingua, ad esempio in Estonia, e di dover fare acquisti alimentari: su che base fareste le vostre scelte? Potreste cercare prodotti Dop o Igp, ma purtroppo in Estonia esiste un’unica Igp ed è un alcolico. Oppure potreste scegliere i prodotti più cari affidandovi al prezzo come indicatore di qualità, ma non avreste raggiunto lo scopo: il prezzo non ci dà alcuna garanzia sulle filiere e sulla sanità delle materie prime. I consumatori più avveduti avranno già trovato la soluzione: acquistare prodotti con la fogliolina verde della Comunità europea, prodotti biologici. O biodinamici. Questa scelta di buon senso ha implicazioni più vaste di quel che potrebbe apparire. Perché scegliere bio invece che prodotti certificati Iso vattelapesca? O provenienti da pratiche agricole di lotta integrata o contrassegnati da marchi di varia natura (parchi, selezioni regionali…)? Perché la fogliolina verde nella percezione comune, garantisce sulla sanità delle pratiche agricole e sulla correttezza e sostenibilità dei processi produttivi. Compero bio perché so che nel pacchetto dei funghi secchi non troverò pesticidi, ecc. ma neppure melanzane al posto dei funghi; compero bio perché quel formaggio non ha additivi e arriva da pascoli biologici e mi garantisce più attenzione al benessere animale; compero bio perché mi aspetto che quella marmellata non abbia pectina, e così via. Le quote del bio crescono e queste aspettative rivestiranno un ruolo sempre maggiore. Trovano riscontri veritieri? No. Il bio già fatica a rendere conto dei processi specifici (produzione intensiva, merce importata da paesi poco affidabili, controlli accomodanti, lavorazioni in conto terzi, troppo peso della distribuzione organizzata nelle scelte strategiche alterano la percezione che ancora nutriamo di una produzione bio di piccola scala), figurarsi se è in grado di rendere conto di scelte produttive e commerciali diverse. Consente l’uso di nitriti e nitrati nei salumi, la pastorizzazione del latte e l’uso di fermenti di sintesi nei formaggi, detta norme di benessere animale appena più stringenti di quelle del convenzionale, non valorizza razze e varietà autoctone e a rischio di estinzione, consente imballaggi poco sostenibili, e così via. Non è il nostro mestiere, potrebbero rispondere. D’accordo, ma siccome i consumatori questo si aspettano dal mondo bio, evitare il problema potrebbe a breve avere conseguenze imprevedibili. Allora perché non affiancare alla fogliolina il marchio Slow Food, ad esempio, che potrebbe garantire sulle questioni di cui parlavamo prima. Che chiede l’applicazione delle sue linee guida ai produttori che aderiscono, senza aggravi di costi? Si troverà un gruppetto di produttori bio o biodinamici di piccola scala, disposti a intraprendere questo viaggio alla ricerca della totale trasparenza?

* Presidente Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus