Andrey Konchalovsky con Cari compagni, il film che presenta a Venezia in concorso, ha voluto per la prima volta nella sua carriera misurarsi con una lungometraggio di ambientazione storica e di impegno civile in cui si ricostruisce la vicenda della ribellione operaia scoppiata a Novocherkassk, non lontano da Rostov sul Don, nel 1962. Lyudmila un membro del partito comunista locale e convinta sostenitrice del «nuovo corso» khrusceviano si trova coinvolta in qualcosa che non avrebbe mai potuto immaginare: l’esercito che spara contro operai che chiedono pane… Dentro la tragedia umana e politica della donna si innesterà la scomparsa della figlia di cui la madre si metterà in ricerca affannosa.

Girato in bianco e nero, con uso di scene di massa e la ricostruzione raffinata della produzione dell’ambiente dell’epoca, Konchalovsky si è avvalso per il ruolo principale della moglie Yulya Visozkaya. Ma lo spettatore non si aspetti una «morale alla Ken Loach»: nella tragedia si salveranno le donne e gli uomini «giusti» ma non il socialismo.

Il massacro di Novocherkask restò per lungo tempo qualcosa a metà strada tra storia e leggenda. Sulla stampa sovietica non se ne accennò neppure fino alla perestrojka e in occidente venne fatta conoscere da un articolo su una rivista di storia accademica tedesca, in seguito da Alexander Solzenitzyn nel terzo volume di Arcipelago gulag e in Urss attraverso i racconti di Petr Grigorenko ed Elena Bonner nelle riunioni clandestine della dissidenza. Tutte ricostruzioni imprecise e imperfette in quanto basate essenzialmente su fonti orali di testimoni.

Solo dopo il crollo dell’Urss e l’apertura degli archivi si potè conoscere per intero quel drammatica episodio.
Nel 1962 a fronte di una difficile congiuntura economica Khruscev decise finanziare i processi di accumulazione schiacciando i consumi operai e aumentando i ritmi di lavoro nelle fabbriche. Il 31 maggio fu così data notizia dell’aumento del 30% del prezzo della carne e degli insaccati e del 25% del burro, due componenti fondamentali della dieta operaia dell’epoca e ciò produsse molti malumori in tutto il paese. Nella fabbrica di impianti di locomotive elettriche di Novocherkassk – negli stessi giorni – veniva deciso l’aumento di un terzo della produttività del lavoro legata al cottimo che produceva una riduzione netta del salario. La reazione operaia dello stabilmente fu spontanea e decisa. Già il 1 giugno i lavoratori entrarono in sciopero e dopo aver sfondato il servizio d’ordine della polizia, occuparono la sede cittadina del partito. In serata operai di altre fabbriche si erano uniti agli insorti. Khruscev accortosi della gravità della situazione spedì a Rostov una delegazione del partito a seguire gli eventi alla cui testa c’era Anastas Mikojan, membro del partito dal 1915, uno degli uomini alla testa delle purghe degli anni Trenta ma sopravvissuto alla destalinizzazione.

Il mattino seguente un corteo di qualche migliaia di persone si mise in marcia per occupare il centro cittadino. In città erano già dispiegati carri armati e autoblindo e poste, banca e altri centri sensibili erano presidiati. Gli operai portavano con sé ritratti di Lenin, striscioni che parlavano di socialismo e uguaglianza e cartelli in cui si chiedeva pane. Le reminiscenze e i riferimenti – seppur vaghi – erano quelli della rivoluzione d’Ottobre e come in tutte le grandi manifestazioni popolari vi si aggiunsero «marginali e ubriachi» come poi fu scritto nei rapporti di polizia. Quando iniziarono gli incidenti, su ordine di Mikojan e con il beneplacito di Khruscev, i reparti speciali del ministero degli interni aprirono il fuoco sulla gente inerme. Dopo la carica folla fuggì in preda al panico. 24 persone restarono senza vita nella strada, il più giovane un ragazzo di 15 anni. Altri due dimostranti verranno uccisi negli incidenti che proseguirono nei quartieri di Novocherkassk fino a tarda sera contrassegnati da scontri corpo a corpo e violente sassaiole. I feriti furono 87, ma solo alcune decine si fecero curare in ospedale. I morti furono sepolti in nottata in tutta fretta in fosse comuni. Lo sciopero durò ancora un giorno mentre la polizia eseguiva rastrellamenti casa per casa. Il rullo compressore della repressione continuò la sua marcia nelle settimane successive: nel processo che seguì vennero condannate sette persone alla pena capitale e 105 a detenzioni tra i 10 e i 15 anni di reclusione a «regime duro».
Stalin era stato bandito al XX Congresso, ma lo stalinismo gli era sopravvissuto.