Per il governo bolivariano l’arrivo a destinazione delle prime due navi cisterna inviate dall’Iran per rifornire di carburante il Venezuela è una grande vittoria diplomatica dei due paesi sotto embargo statunitense: un frutto della «diplomazia di pace» promossa da Maduro, come ha sottolineato il capo del comando strategico della forza armata bolivariana Remigio Ceballos.

Malgrado la minaccia di un attacco da parte degli Usa, presenti nei Caraibi con quattro navi da guerra impegnate in un’operazione di contrasto al narcotraffico, Trump non ha ordinato alla marina militare di intercettare le petroliere.

Il governo iraniano aveva avvertito che non avrebbe tollerato alcun ostacolo e che, in caso di attacco, la sua risposta sarebbe stata «contundente». Cioè, presumibilmente, sotto forma di rappresaglia contro le navi cisterna Usa nello Stretto di Hormuz, con conseguente collasso del commercio energetico a livello globale.

A sua volta, il ministro della Difesa Vladimir Padrino López aveva assicurato che, una volta nelle acque territoriali, le petroliere sarebbero state scortate dalla marina e dall’aviazione militari venezuelane, come avvenuto con la prima nave cisterna, la Fortune, giunta domenica a Puerto Cabello nello Stato di Carabobo, dove opera la raffineria El Palito, e con la seconda, la Forest, ormai prossima all’attracco.

Si attende ora l’arrivo delle altre tre navi – Petunia, Faxon e Clavel – che nei prossimi giorni, dopo 12mila km, completeranno il rifornimento di 1,5 milioni di barili di carburante: una provvidenziale boccata di ossigeno per la crisi di benzina esplosa già a marzo, con file interminabili ai benzinai e un aumento dei prezzi fino a tre dollari al litro, in un paese in cui il carburante era quasi gratis.

Che una potenza petrolifera come il Venezuela – le riserve stimate più grandi al mondo e il secondo maggiore impianto di raffinazione, quello di Paraguaná – debba ricorrere alla benzina iraniana non poteva non suscitare gli sprezzanti commenti della destra: «Arriva la prima nave iraniana carica di benzina. Potenza petrolifera? Che vergogna!», ha postato su Twitter Alberto Federico Ravell, direttore del Centro di comunicazione creato da Guaidó.

In realtà, dal primo ordine esecutivo contro l’industria petrolifera statale (Pdvsa), nell’agosto 2017, le misure dirette a colpire la colonna vertebrale dell’economia venezuelana non hanno fatto che inasprirsi, conducendo al blocco di tutti i beni e gli interessi di proprietà della Pdvsa soggetti alla giurisdizione Usa, per un totale di sette miliardi di dollari.

Come pure all’appropriazione della Citgo, la filiale della Pdvsa negli Usa (al centro di un enorme schema di corruzione riconducibile alla giunta direttiva designata da Guaidó), e alle sanzioni contro le imprese petrolifere straniere in affari con il governo venezuelano, di cui hanno fatto le spese, all’inizio del 2020, le russe Rosneft Trading e TNK Trading International.

Una strategia diretta a strangolare completamente l’economia venezuelana, paralizzando la Pdvsa come fonte principale di entrate statali e bloccando il rifornimento di benzina. Fino all’invio di navi cisterna da parte dall’Iran, nel quadro di accordi di cooperazione tra i due paesi che abbracciano diversi settori.

La crisi petrolifera venezuelana non può essere ricondotta esclusivamente all’embargo. Un ruolo importante lo gioca anche la trama di corruzione che ha compromesso l’impresa statale perlomeno dal 2009 al 2017, con il coinvolgimento di ben tre presidenti della Pdvsa e ministri del petrolio: Rafael Ramírez, Eulogio Del Pino e Nelson Martínez.

Tuttavia, se neppure la ristrutturazione della Pdvsa operata nel 2017 è riuscita a rilanciare la produzione di petrolio, è dipeso dalla dipendenza dalla tecnologia statunitense e dall’impossibilità, per l’embargo, di importare pezzi di ricambio e additivi chimici per i processi di raffinazione.

Da qui l’importanza delle petroliere iraniane, che, riforniranno il paese anche di additivi necessari per la riattivazione delle raffinerie.