Chi si ricorda oggi di Francesca Serio? Eppure il suo nome è circolato, di tanto in tanto, per quasi quarant’anni, nelle cronache italiane. Era la mamma di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia il 16 maggio del 1955. Un omicidio come tanti, che punteggiavano la Sicilia turbolenta del dopoguerra, ma che allora suscitò un’ondata di sdegno in tutto il paese.

SALVATORE era un sindacalista, iscritto al Partito socialista ed era in prima fila nella lotta per una più equa ripartizione dei patti colonici, l’applicazione dei decreti Gullo e, dopo il 1950, per la spartizione del latifondo e la distribuzione della terra ai contadini. Si trattava, con evidenza, di un delitto politico, un attacco criminoso al sindacato, a un grande partito nazionale, ai movimenti contadini. Un fatto di sangue, che, come allora accadeva, dopo una prima condanna all’ergastolo dei probabili assassini, rimase impunito per la sentenza finale di assoluzione da parte della Cassazione.
Ora quella pagina di storia torna in forma di cronaca romanzata per merito di Franco Blandi, Francesca Serio, La madre (Navarra Editore, pp.255, euro 15). È un romanzo in forma di diario, in cui Francesca registra la sua vita quotidiana di giovane madre, di donna crudelmente ferita dall’uccisione del figlio, di militante civile che si batte per anni al fine di avere giustizia.

MA QUESTA STORIA NOTA (la ricorda Carlo Levi in Le parole sono pietre) ritorna ora nelle pagine di Blandi con una forza evocativa sorprendente. Le pagine del diario restituiscono il mondo contadino della Sicilia del dopoguerra con uno scrupolo documentario e una semplicità di scrittura che ha affreschi «verghiani» di grande intensità. «È sera quando la porta si apre e ad uno ad uno entrano papà, mamma e i miei fratelli. Sfilano tutti davanti al focolare allungando le mani per riscaldarsi. Gli uomini si tolgono di dosso le giacche diventate pesanti per l’umidità e le appoggiano sulle sedie accanto al braciere. La nebbiolina umida che emana sale verso l’incannucciato del tetto. La nonna è già impegnata a preparare la cena: minestra di cavoli e pane. Con questo freddo è proprio quello che ci vuole. Il fumo della minestra sale dai piatti e si mescola con quello del focolare e del braciere. Mio figlio dorme, così posso sedermi a tavola anch’io con tutti gli altri. Papà, come ogni sera, toglie fuori dalla tasca un piccolo coltello e taglia il pane. Anche se nessuno lo chiede, lui lo taglia sempre e lo mette al centro della tavola. Nessuno di noi ha molta voglia di parlare. La stanchezza toglie il fiato».

NELLE PAGINE DI SERIO domina sovrana la fatica, il lavoro che assorbe tutta la giornata, in una campagna segnata dal paesaggio nudo del latifondo. Il mondo dei braccianti, dei contadini privi di terra, è quello della ricerca quotidiana della giornata di lavoro, dell’ingaggio per poter mettere le braccia a servizio di un campiere, che le sorveglierà dall’alba al tramonto. E le pause sono poche: il pasto in campagna, la cena, il riposo notturno. Ma il pranzo della famiglia ha nel racconto sempre un posto speciale, perché Blandi, con scrupolo documentario, ricostruisce la genialità dei contadini nel trasformare il grano, le olive, i cardi selvatici, i piselli in piatti desiderabili.
L’altro merito del libro è senza dubbio la ricostruzione, in un flusso narrativo che non conosce indugi sociologici, del contesto sociale e politico delle campagne siciliane. Non si possono comprendere le conquiste della democrazia repubblicana, se si ignorano le lotte politiche condotte dai contadini e dai partiti popolari in quegli anni.

LA SICILIA è un paradigma delle specifiche difficoltà dell’Italia a diventare uno stato di diritto. Blandi illumina con il semplice racconto dei fatti questo paradigma. Attraverso le vicende del bracciante Carnevale emergono la struttura e i meccanismi di potere che regolano la vita delle campagne isolane. C’è la terra, la grande proprietà, ci sono i campieri a servizio dei proprietari, poi ci sono i carabinieri, il parroco e, al di sotto di tutti, la massa dei braccianti, sfruttati sino allo sfinimento. Come accade ancora oggi ai braccianti nordafricani nelle nostre terre. Segno che la ferocia padronale è sempre viva se manca l’antidoto del conflitto organizzato. Allorché sin dai decreti Gullo, lo stato postfascista comincia a mettere le mani sui rapporti semifeudali di quelle campagne, la difesa proprietaria dei vecchi assetti si fa violenta e sanguinaria.

PROPRIETARI E CAMPIERI si rifiutano di applicare le leggi dello stato e mettono in campo la forza che deve contenere le rivendicazioni popolari: la mafia. Meccanismo noto, certo. Meno noto è che a schierarsi contro i contadini e lo stato sono anche i carabinieri, protagonisti di continue intimidazioni contro i lavoratori, così come tanti parroci, la gran parte della chiesa siciliana, non pochi maggiorenti della Democrazia Cristiana, il partito di governo attraverso cui la criminalità organizzata penetrerà nel cuore dello stato italiano.