A dare un’occhiata dentro le carceri italiane – tramite il XVII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione dal titolo «Oltre il virus» presentato ieri alla presenza del capo del Dap Dino Petralia, della sua omologa Gemma Tuccillo, capo Dipartimento per la giustizia minorile, e del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma – si ha l’impressione che sia passata un’intera era geologica da quando «l’identità nazionale rumena veniva considerata un’aggravante», per usare le parole di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

E da quando, nell’ottobre 2007 (proprio mentre nasceva il Pd), a Roma l’orribile stupro e omicidio della signora Giovanna Reggiani convinse l’allora sindaco dem Walter Veltroni a lanciare dal Campidoglio una campagna d’odio contro i migranti provenienti dalla Romania. «Mentre la popolazione carceraria è aumentata – ha spiegato ieri Gonnella – negli ultimi anni la componente rumena è diminuita di un terzo, passando da quasi 3 mila del 2009 a circa 2 mila del febbraio 2021». L’integrazione ha viaggiato più velocemente del populismo penale.

È UN PUNTO QUESTO su cui giustamente insiste il rapporto Antigone. Se nell’ultimo anno la popolazione carceraria è diminuita del 12,3% (53.697 detenuti attuali) – «esito più di attivismo della magistratura di sorveglianza che non dei provvedimenti legislativi in materia di detenzione domiciliare» – riportando l’Italia vicina ai livelli del 2015, quando dopo le condanne europee intervennero misure deflattive, il numero di stranieri detenuti rimane invece stabile al 32,5%. Succede però che «il 16,1% degli stranieri si trova in carcere con una condanna non ancora definitiva», mentre «gli italiani nella stessa condizione sono il 14,7%». E che i detenuti stranieri, “confinati” in massa in Sardegna, finiscano per scontare l’intera pena in carcere, usufruendo delle pene alternative molto meno degli italiani. Senza parlare del fatto che dei 67 mediatori culturali previsti in pianta organica, in servizio in tutta Italia ce ne sono solo 3 (tre).

IL TASSO DI SOVRAFFOLLAMENTO – che «è diventato non solo una condizione degradante per l’internato ma anche un problema di salute pubblica», come fa notare Susanna Marietti – è oggi pari a 115% se si considerano i posti realmente disponibili (50.551), e deve ancora scendere. Per stare nella legalità ci vorrebbero almeno 8 mila detenuti in meno.

La buona notizia è che il capo del Dap Petralia ha annunciato che è finita l’era dell’edilizia penitenziaria e che si punta piuttosto all’«architettura carceraria». La cattiva notizia – come ha fatto notare il Garante Mauro Palma che presenterà la sua relazione al Parlamento il 15 giugno prossimo – è che il nuovo corso assomiglia molto al vecchio, perché «spesso il restauro architettonico degli istituti per ottenere un ampliamento degli spazi detentivi è a detrimento delle aree verdi, dei campi di calcio e degli spazi dedicati al trattamento dei detenuti».

Palma insiste poi in particolare sulle misure alternative di cui si parla molto ma senza agire di conseguenza (61.589 le persone che scontano una pena non detentiva, ma in carcere ci sono 19.040 detenuti con un residuo pena inferiore ai tre anni, dunque potenzialmente ammissibili a misure alternative). «Chiunque presenti un’ipotesi legislativa per potenziare le misure alternative – sottolinea il Garante – dica quanti soldi ci mette, quanto personale e come rafforza il tribunale di sorveglianza. Altrimenti taccia, è preferibile».

D’ALTRONDE la contraddizione è palese: se l’omicidio volontario è al minimo storico (271 casi nel 2020, -14% rispetto all’anno precedente), crescono invece le pene lunghe e aumenta il numero degli ergastolani (1.784, rispetto a 5 anni prima sono 560 in più; solo 112 stranieri). A questo proposito vale la pena ricordare che tra pochi giorni – il 23 marzo – la Consulta deciderà sulla costituzionalità dell’ergastolo ostativo e del divieto di concedere la liberazione a chi non collabora con la giustizia.

BEN 851 sono poi gli ultrasettantenni che rimangono in carcere, a fronte di 9.497 infra-trentenni. Da notare anche il dato delle persone sottoposte al carcere duro del 41 bis: 759, di cui 746 uomini e 13 donne. «Una crescita contenuta ma continua negli ultimi anni», fa notare Gonnella. Nel corso dell’anno scorso sono stati 25 i provvedimenti di prima applicazione del carcere duro, il 15% in meno rispetto al 2019.

Eppure il dato pare eccessivo perfino a Franco Mirabelli, capogruppo Pd nella commissione Antimafia: «L’istituto del 41 bis va difeso – scrive in una nota il vicepresidente dei senatori dem – è un istituto straordinario che ha funzionato e funziona. Ma pensare che in Italia ci siano oltre 700 capomafia da sottoporre a quel trattamento appare spropositato. L’eccessivo utilizzo del 41bis è certamente legato alla inefficienza delle attuali strutture di Alta Sicurezza».

VA DETTO PERÒ che è nelle celle di detenzione comune che si registra il maggior aumento di malattie psichiche, di episodi di autolesionismo (23,86 ogni 100 detenuti), e soprattutto di suicidi: 61 nel 2020, un numero tra i più alti degli ultimi venti anni. E sono sempre più giovani, i detenuti che si tolgono la vita: la media dell’anno scorso è stata di 39,6 anni.

Il totale dei morti è 154, di cui 18 di Covid, deceduti insieme a 10 poliziotti penitenziari. In un anno di pandemia non molta strada è stata fatta: da qualche giorno è cominciata la campagna vaccinale con circa mille reclusi e 5 mila agenti che, ad oggi, hanno ottenuto la prima dose. Ed è passato un anno anche da quelle rivolte scoppiate in alcune carceri in risposta alle prime restrizioni anti-Covid. Rivolte durante le quali – o subito dopo – sono morti 12 detenuti. In molti si chiedono ancora perché.