L’«emergenza carcere» inquieta l’opinione pubblica e rischia di favorire quella che sembra la più ovvia delle soluzioni: costruire più carceri.

Al 31 dicembre 2018, si trovavano nelle carceri italiane poco meno di 60mila detenuti, 10mila in più rispetto ai posti disponibili. Quasi altrettante erano le persone in misura alternativa alla detenzione. Pesano le leggi «carcerogene» come la legge 309 sulle droghe e la legge Bossi-Fini sull’immigrazione. Il 30% dei detenuti è punito per violazione della legislazione sulle droghe (vecchia ormai di 30 anni) contro il 15% della media europea. Circa un terzo dei detenuti sono stranieri.

Il carcere, nel nostro paese, colpisce soprattutto i più poveri. Per reati economico-finanziari sono rinchiusi lo 0,4% dei detenuti contro una media europea dieci volte superiore; in Germania il numero di detenuti per reati in materia di droghe è pari a quello dei detenuti per reati economico-finanziari.

Le condizioni di vita nei penitenziari sono spesso insostenibili. Nel 2018 sono morte in carcere 148 persone, 67 per suicidio. Il carcere non incide significativamente sul rischio recidiva, cioè sulla possibilità che una persona già condannata commetta un nuovo reato, e lascia senza sostegno la persona che ha scontato la pena: un detenuto su quattro, all’uscita dal carcere, non sa dove andare.

È per queste ragioni che operatori della giustizia e organizzazioni della società civile riflettono da tempo su un nuovo approccio al reato e alla pena. Come Cnca incontriamo tanti ragazzi in «messa alla prova» e molti adulti, specie tossicodipendenti, ospitati nelle comunità in alternativa alla detenzione. Pur non essendoci dati certi, si ipotizza che le misure alternative e di accompagnamento all’uscita dal carcere producano un abbassamento della recidiva dal 70% a meno del 20%.

La «giustizia riparativa» è un modello che tende a coinvolgere in una rielaborazione comune la vittima, se disponibile, il reo e la comunità in cui il reato è avvenuto. È un’opzione politica ed etica, prima che operativa. Chiede al reo di assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti e di porre rimedio alla sofferenza provocata, anche attraverso l’incontro con la vittima, se possibile; quest’ultima non viene lasciata sola, con il suo dolore, ma aiutata nell’elaborare il senso di ciò che ha patito; la comunità partecipa come collettività che ha subito il reato e, nello stesso tempo, che ha le risorse per favorire la «riparazione». Un lavoro connesso a una serie di pratiche di prevenzione del reato, soprattutto in contesti e situazioni «difficili» che producono responsabilizzazione, mediazione dei conflitti, attività tra pari (il gruppo classe in caso di bullismo, ad esempio).

In Italia siamo agli albori. Il Governo precedente aveva promosso una riflessione importante sulla giustizia riparativa all’interno degli Stati Generali dell’esecuzione penale, che purtroppo non si è tradotta in innovazioni legislative. Ora si tratta di fare un grande investimento collettivo su questo approccio innovativo. Crediamo che si debba riprendere la riflessione istituzionale aperta con gli Stati generali dell’esecuzione penale; destinare finanziamenti adeguati, oggi del tutto insufficienti, per implementare interventi di giustizia riparativa e misure alternative al carcere; costruire sui territori luoghi di collaborazione tra uffici della giustizia territoriali con tutti i soggetti del terzo settore e della comunità locale interessati; implementare iniziative di formazione per formare facilitatori dei processi di giustizia riparativa.

Il Governo scelga se perseguire l’approccio «più carceri e buttiamo la chiave» o produrre, realmente, maggiore sicurezza.

* Presidente Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca)