Grava ancora un senso di incertezza sulle prospettive del carcere in Italia. La popolazione detenuta continua a crescere mentre il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, rivendica la continuità del governo in carica con quello che lo ha preceduto e lo testimonia con una recente circolare volta a contrastare le evasioni dalle carceri che, oltre a indicare ragionevoli misure di prevenzione, individua una nuova categoria di detenuti da «attenzionare»: quelli che «abbiano dato prova di una spiccata tendenza all’evasione», «provenienti da particolari aree geografiche, i quali hanno dato più volte prova di riuscire a superare ostacoli naturali e artificiali con una certa facilità, senza curarsi delle conseguenze, dei controlli del personale e dei rischi fisici nel tentare di superare altezze spesso anche considerevoli». Nel frattempo, il ministro e alcuni parlamentari del suo partito partecipano a una campagna di stampa contro la Corte europea dei diritti umani e, chissà, domani contro la Corte costituzionale, ree di aver affermato l’una, di poterlo fare l’altra, l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con le Convenzioni internazionali e la Costituzione repubblicana.

Nell’assemblea nazionale dei garanti delle persone private della libertà nominati dalle Regioni e dagli Enti locali, tenutasi venerdì e sabato scorso a Milano, abbiamo ribadito la necessità di una inversione di rotta rispetto al recente passato e a questo inquietante presente. Una inversione di rotta nel senso dei principi costituzionali e del carcere come extrema ratio. Sono queste le condizioni per una effettiva ed efficace tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute che, secondo la Costituzione e le norme internazionali, non possono essere compressi oltre quanto strettamente necessario alla privazione della libertà. Non solo: secondo la nostra Costituzione, alle istituzioni pubbliche spetta la responsabilità di mettere in atto azioni positive volte al reinserimento sociale delle persone detenute. Per questo è stucchevole quanto deleteria la polemica contro misure universalistiche di sostegno sociale, come il reddito di cittadinanza, che giustamente la legge riconosce anche ai condannati in esecuzione penale esterna che ne abbiano i requisiti.

Bisogna dunque riaprire le porte al carcere della speranza, alle alternative e a una giustizia dei diritti: i diritti delle vittime reali o potenziali, degli indagati e degli imputati, dei detenuti e dei condannati che – qualsiasi sia il loro reato – non perdono lo status di persone e di cittadini.

Checché ne dicano i lugubri cantori del carcere a vita, è solo così che la giustizia penale può contribuire a garantire una maggiore sicurezza nelle nostre comunità. I Garanti territoriali si impegneranno su questa strada, in raccordo con il Garante nazionale, sollecitando le Regioni e gli Enti locali a fare fino in fondo la loro parte nella tutela della salute e nella promozione di opportunità di reinserimento attraverso l’istruzione, la formazione professionale, l’avviamento al lavoro e il sostegno sociale. Ma eguale impegno va perseguito a livello nazionale, superando quel clima conflittuale che è stato alimentato nello scorso anno e riprendendo il lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale su alcuni punti fondamentali della vita in carcere e delle sue alternative, dalla affettività alle relazioni con il mondo esterno, dalla promozione di lavoro retribuito all’accompagnamento a fine pena attraverso l’accesso più ampio possibile alle alternative alla detenzione.

Per questo abbiamo concluso la nostra assemblea lanciando la proposta di una riconvocazione nella prossima primavera degli Stati generali dell’esecuzione penale, su iniziativa di tutti quei soggetti, istituzionali e non, che condividono il programma costituzionale in materia di carcere, esecuzione penale e privazione della libertà.