Siamo le mamme delle ragazze e dei ragazzi di Torino sottoposti da diversi mesi a pesanti misure cautelari per aver partecipato a manifestazioni e iniziative antirazziste, antifasciste e in difesa del territorio.

Ci siamo riunite in gruppo «Mamme in piazza per il dissenso» per sostenere i nostri figli e le nostre figlie e denunciare la situazione di evidente ingiustizia che stanno vivendo. Vi preghiamo di leggere, diffondere e firmare il nostro appello.

Nella città di Torino, 28 ragazzi e ragazze sono, da molti mesi, sottoposti a misure cautelari preventive molto dure. Non hanno rubato soldi pubblici, non hanno corrotto e non sono stati corrotti, non hanno cercato di trarre illeciti profitti personali, non hanno avvelenato l’aria con la polvere di amianto.

Hanno manifestato contro quel treno ad alta velocità Torino-Lione che saccheggia le risorse pubbliche per costruire un’opera utile solo ai suoi costruttori; hanno difeso le aule dell’università che frequentano dalla lugubre e incostituzionale presenza di fascisti torinesi, estranei – tra l’altro – a quelle aule; hanno tentato di sfilare in corteo per ricordare che una città medaglia d’oro alla Resistenza non può assistere in silenzio alla presenza arrogante di un partito xenofobo e razzista; hanno tentato di difendere il diritto all’abitare di famiglie travolte dalla crisi.

Non erano soli, a farlo. Nelle strade della Val di Susa come in quelle torinesi, nei quartieri popolari come nelle aule universitarie si è espresso un movimento vasto, multiforme e articolato, partecipato da migliaia di cittadini, che ha utilizzato, nell’espressione del dissenso, gli strumenti propri dei movimenti sociali: cortei, presidi, comunicazione (…).

Ebbene, questi ragazzi e queste ragazze sono stati sottoposti a misure molto dure: c’è chi non può più vivere a Torino, sua città di residenza, e chi non può uscire da Torino, neanche per andare a trovare i genitori; c’è chi deve recarsi quotidianamente a firmare in caserma e chi deve restare chiuso in casa dalla sera all’alba; infine ci sono gli «incarcerati in casa», in stretto isolamento, costretti quindi alla perdita del lavoro, allontanati dalla frequentazione dei corsi universitari e impediti nel vivere i loro affetti. Tutti privati, o fortemente limitati, nella loro libertà.

A questi ragazzi e a queste ragazze viene negato il diritto a studiare, il diritto a lavorare, il diritto a vivere una vita dignitosa insieme alle persone che amano, il diritto alla libertà personale: e tutto questo senza essere ancora stati sottoposti a giudizio. Puniti duramente, a dispetto della presunzione di innocenza, per intimorire loro e tutti quelli che potrebbero pensarla come loro. Puniti duramente per aver praticato il diritto a dissentire.

Come genitori, amici, cittadini ci chiediamo se non si sia creato, nella città di Torino, un corto circuito pericoloso volto, di fatto, a limitare libertà fondamentali dei cittadini, quali il diritto costituzionalmente garantito a manifestare (…). Un corto circuito che si nutre della «apparente» decontestualizzazione degli eventi per ridurre le tensioni e le rivendicazioni sociali a fattispecie criminali da perseguire: «apparente» perché non può non sorgere il dubbio che la volontà di vessare e punire sia correlata proprio alle ragioni politiche e sociali che motivano l’agire di questi ragazzi e ragazze. Da cui la scelta di forzare le norme e attuare la massima possibile punizione preventiva: ci troviamo davanti al paradosso di detenzioni preventive che equivalgono o superano le abituali condanne, laddove ci fossero, normalmente comminate per quel tipo di reati.

Come genitori, amici, cittadini riteniamo che il ritiro delle misure cautelari preventive per tutte e tutti sia il primo, indispensabile passo per interrompere questo corto circuito e ristabilire il diritto al dissenso.

La risposta di Livio Pepino

Care madri, il vostro non è solo un appello accorato di chi vede figli e figlie privati di alcuni diritti fondamentali.

È, anche, la denuncia forte di una deriva pericolosa della giurisdizione di fronte a manifestazioni tipiche del conflitto sociale.

Accade, infatti, in maniera sempre più diffusa, nel paese e a Torino in particolare, che pubblici ministeri e giudici della cautela si accollino un ruolo improprio di diretta tutela dell’ordine pubblico, accantonando la funzione di garanzia che è loro propria.

I sintomi sono quelli che voi denunciate e altri ancora: la dilatazione a dismisura delle ipotesi di concorso di persone nel reato, il ricorso massiccio alla custodia cautelare in carcere anche nei confronti di incensurati, l’uso a pioggia e per lunghi periodi di misure cautelari non detentive per fatti modesti, la costruzione dell’antagonista come «tipo di autore» dotato di particolare pericolosità, la contestazione di fattispecie di reato sproporzionate o abnormi, la predisposizione di corsie privilegiate per i procedimenti in tema di conflitto sociale e via elencando.

Ciò – superfluo dirlo – non ha nulla a che fare con l’invocata obbligatorietà dell’azione penale, ma è frutto di precise (e controvertibili) scelte di politica giudiziaria.

La speranza è che il vostro appello faccia uscire dal torpore una sinistra assente o, quantomeno, distratta.

Livio Pepino