È stata chiamata Manuela, ma non è questo il suo vero nome. Ed è l’unica cosa non vera in una storia diventata il simbolo di tutte le violenze a cui sono sottoposte le donne in El Salvador. Una storia in cui la sentenza emessa dalla Corte interamericana per i diritti umani (Cidh) ha portato finalmente una nota di giustizia.

Un giorno di febbraio del 2008, in preda a forti dolori addominali Manuela, all’epoca 31enne, si era diretta in una latrina a pochi metri dalla sua casa, pensando a un’indigestione. E lì aveva espulso un feto, prima di perdere i sensi ed essere portata in ospedale con una forte emorragia. Per lei, povera e analfabeta e all’oscuro della gravidanza, quello era solo l’inizio di un incubo.

Invece di assisterla – e di scoprire così che la donna soffriva di un linfoma di Hodgkin – il personale medico aveva chiamato la polizia, convinto che si fosse procurata un aborto per nascondere una presunta infedeltà. E così Manuela era stata ammanettata al suo letto di ospedale ancora convalescente. Arrestata e condannata più tardi a 30 anni di carcere per omicidio aggravato – senza un’effettiva difesa giudiziaria -, la donna era morta due anni dopo di cancro, lasciando orfani i suoi due figli.

Del caso aveva iniziato a occuparsi nel 2012 la Cidh che, sette anni dopo, nel 2019, aveva presentato il suo rapporto alla Corte, accusando lo Stato salvadoregno di aver violato il diritto di Manuela alla libertà personale, la protezione giudiziale, la presunzione di innocenza, la vita e la salute.

E martedì la Corte interamericana, dopo le due giornate di udienze pubbliche tenute il 10 e 11 marzo scorso, ha riconosciuto lo Stato colpevole di aver condannato arbitrariamente Manuela, sulla base di «pregiudizi e stereotipi di genere».

Una sentenza storica che segna un precedente di grande importanza in un paese in cui l’interruzione di gravidanza è proibita senza eccezioni e dove, come insegna il caso di Manuela, persino le donne che abortiscono spontaneamente o danno alla luce un neonato morto, soprattutto se prive di risorse economiche, con bassa scolarità e provenienti da aree rurali o da periferie urbane, possono andare incontro all’accusa di omicidio aggravato.

Nessuna donna può essere denunciata per un sospetto di aborto, ha concluso la Cidh, ordinando allo Stato salvadoregno di avviare un processo di riparazione per i familiari di Manuela, di garantire borse di studio ai suoi figli, di prestare loro assistenza psicologica, come pure di assicurare l’obbligo del segreto professionale medico e la protezione dei dati sensibili e di adottare le misure necessarie per garantire un’assistenza integrale nei casi di complicazioni ostetriche.

«El Salvador dovrà assumersi la responsabilità della morte di Manuela, risarcire i suoi genitori e i suoi figli e operare perché nessun’altra donna debba subire ciò che ha sofferto lei», ha dichiarato l’avvocata del Centro di diritti riproduttivi, Catalina Martínez Coral.