Fascicoli pesanti attendono il nuovo ministro della Giustizia. Soprattutto per quanto riguarda il carcere, la cui caratteristica e la cui situazione concreta sono gli indicatori reali del funzionamento della giustizia penale: da là bisogna partire per capire quale sia di fatto la fisionomia di tale sistema, se e come esso sia in grado di ricostruire equità, senza essere investito di funzioni improprie di gestione regolativa dei comportamenti individuali e delle contraddizioni sociali.

La fisionomia del carcere italiano connotata come è dalla prevalente presenza di soggetti socialmente deboli, rende plasticamente l’immagine di un luogo che è diventato in molti casi strumento, inutile e dannoso, per affrontare contraddizioni che potrebbero essere invece preventivamente risolte con un maggiore intervento sociale. Un luogo che è interno alla crisi sociale e al taglio degli investimenti positivi nel territorio ed è frutto della funzione simbolico-pedagogica assegnata alla detenzione da parte di chi ha inteso affrontare con il continuo ampliamento del ricorso a essa i timori di una collettività ansiosa per il venir meno delle proprie reti protettive sociali.

Questo carcere ha trovato solo negli ultimi mesi un’attenzione diversa. Certo, la spinta è stata la sanzione internazionale, prima nel 2009 con una sentenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo che ha condannato l’Italia per le condizioni di detenzione di uno specifico detenuto, ritenendole in violazione della tutela della sua dignità; poi nel 2013 con una nuova sentenza della stessa Corte che ha ritenuto che tale situazione non riguardasse più singoli casi, ma il sistema nel suo complesso. In sintesi, che quelle condizioni, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani che vieta in modo assoluto e inderogabile la tortura e i trattamenti disumani o degradanti, fossero ormai la cifra di un sistema, la sua peculiarità: per quanto riguarda sia lo spazio ristretto oltre il limite di accettabilità minima, sia il modello meramente segregativo che caratterizza la vita al suo interno.

Ci si è mossi da qui, con il tempo stretto dato dalla Corte per rimediare a tale situazione, pena la possibilità di un alto numero di sanzioni corrispondente all’altrettanto ampio numero di ricorsi presentati da detenuti che in tali condizioni vivono; ricorsi per ora accantonati, proprio per dare tempo agli interventi possibili. I tempi scadranno alla fine di maggio. L’intervento avviato in questi mesi ha cercato di volgere al positivo la negatività di tale sentenza.

Il Piano di azione presentato alla comitato di Strasburgo che vigila sulla esecuzione delle sentenze della Corte è stato articolato su più linee. La prima è stata quella degli interventi normativi per ridurre il numero di detenuti e abolire gli aspetti inutili e iniqui di alcune leggi degli ultimi anni: da qui i due decreti per ridurre l’incidenza della legge cosiddetta ex-Cirielli che funziona da tappo per la concessione di misure alternative proprio ai soggetti socialmente deboli, per ampliare la concessione della liberazione anticipata, per introdurre un effettivo sistema di ricorso giurisdizionaliste tutelato, come da tempo richiesto dalla Corte costituzionale, per ridurre la sanzione penale per consumatori di sostanze i cui reati sono definiti dalla norma stessa come «di lieve entità»; infine per iniziare a introdurre una figura di monitoraggio indipendente dei luoghi di privazione della libertà, quale garante nazionale di chi vi è ristretto. Interventi parziali, è vero, ma i primi in controtendenza dopo anni di decretazione sistematicamente centrata sull’estensione della penalità e della detenzione. Interventi resi a volte ancor più parziali da un percorso parlamentare cauto e timoroso rispetto a una opinione pubblica frequentemente sollecitata dai cultori del clangore delle manette che non mancano in ogni schieramento politico. Ma, interventi che trovano certamente un aiuto nella recente sentenza sull’incostituzionalità della legge del 2006 sulla droga. I primi effetti sono stati una riduzione di 8mila detenuti dal 2010 a oggi e il processo di contenimento si amplierà gradualmente nei prossimi mesi.

La seconda linea d’intervento ha riguardato la vita in carcere, cioè quei molti aspetti di dignità quotidiana che la Corte di Strasburgo ha per ora non esaminato, data la prevalenza del parametro del sovraffollamento, impegnandosi a riaffrontarli non appena almeno lo spazio minimo vitale sarà assicurato. Qui, ci si è basati sul lavoro di molti, riuniti in un’apposita commissione, le cui indicazioni sono state inviate, come ultimo atto del ministro Cancellieri, a tutte le diramazioni dell’Amministrazione penitenziaria quali linee di indirizzo per l’azione da svolgere. L’idea è stata di utilizzare l’occasione della sentenza per cambiare progressivamente il modello di detenzione arretrato e passivo che, salvo alcune lodevoli eccezioni, caratterizza il carcere del nostro Paese. Intervenire in questo ambito vuol dire modificare alcuni nodi della vita giornaliera dietro le sbarre: dalla possibilità di avere un numero ben più consistente di ore da spendere fuori dalle celle e dalle sezioni, alla richiesta pressante alle direzioni perché organizzino tale tempo con attività e opportunità lavorative, alla ridefinizione delle modalità di rapporti con le famiglie, anche utilizzando le forme di comunicazione che oggi la tecnologia offre, alla revisione degli scandalosi livelli di’impegno finanziario per il vitto dei detenuti, alla riorganizzazione del lavoro, dando senso e direzione agli stanziamenti in tale settore, spesso dispersi in mille rivoli di natura episodica e non strutturale. Fino a cambiare anche la qualità di chi in carcere lavora e il modello stesso di sicurezza negli istituti.

Questi interventi, che si muovono in linea con le Regole penitenziarie europee e con il mai pienamente attuato Regolamento italiano del lontano 2000, richiedono attività di progettazione da parte di tutte le diramazioni dell’Amministrazione – e quindi un’azione di chiaro indirizzo nei loro confronti – e implicano anche la rimodulazione degli spazi nel carcere. Proprio per questo, si è limitato lo stanziamento complessivo per la costruzione di nuovi istituti – se non dove strettamente necessario – tendendo più alla riqualificazione e rimodulazione del patrimonio edilizio esistente. Un’azione più snella che costituisce la terza linea di azione, quella di natura strutturale, logistica, e che contraddice la risposta solo edilizia che alcuni avrebbero voluto e vorrebbero dare al problema affollamento.
Resta, infine, la linea d’intervento per risarcire in qualche forma coloro che le condizioni definite dalla Corte «disumane e degradanti» hanno subito: la Corte lascia aperte più ipotesi, dal dare un «peso» maggiore, ai fini del computo complessivo della pena, a una giornata di detenzione spesa in tali condizioni, fino al risarcimento in forma economica. Tema, questo, rimasto aperto e da affrontare con urgenza.

Certamente questi interventi avrebbero avuto più effetto in tempi brevi se fossero stati accompagnati da un provvedimento di eccezione, quali amnistia e indulto, così come richiesto dal Capo dello Stato. Ma, essendo tale decisione nella disponibilità del Parlamento e non di chi ha compiti esecutivi, non era possibile prenderla come pre-condizione per agire. E l’azione messa in campo deve assumere un ritmo accelerato che tenga conto della scadenza di Strasburgo, ormai imminente, e ancor più delle attese che un inizio di intervento riformatore ha suscitato in un mondo troppo a lungo tenuto distante da qualsiasi tensione positiva, lasciato come simbolica cristallizzazione di una cattiva coscienza sociale.