Le carceri non devono essere dirette dalla Polizia e non devono finire sotto il controllo del Ministero degli Interni. Finanche chi ha privatizzato parte del sistema delle prigioni, come gli Usa o il Regno Unito, hanno riservato le competenze al Ministero della Giustizia.

Tra i suggerimenti che le organizzazioni internazionali danno alle nuove democrazie vi è quello di togliere le prigioni dal controllo dei ministeri di Polizia. Mario Gozzini, a cui si deve la grande riforma carceraria del 1986, scriveva di direttori penitenziari straordinari, motivati, democratici che si sentivano in perfetta sintonia con il dettato costituzionale, il quale prevede, va sempre ricordato, che la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Gozzini raccontava anche di come spesso giovani direttori, giunti entusiasti a lavorare in carcere, si fossero poi progressivamente demotivati scegliendo di lavorare altrove. La storia della pena in Italia ha vissuto anche anni bui. Si pensi a quando la giustizia italiana era nelle mani di Mario Borghezio (sottosegretario nel 1994) o Roberto Castelli (Ministro dal 2001), entrambi leghisti: in quegli anni il sistema penitenziario non si è trasformato in un luogo a loro immagine e somiglianza solo perché direttori, operatori e di conseguenza poliziotti penitenziari, si sono fatti carico di una gestione democratica e aperta al territorio. Un progetto di riforma che affidi ai poliziotti la direzione delle carceri non tiene conto della storia, del diritto internazionale, degli obiettivi costituzionali.

Da giorni si parla di una proposta di scioglimento del Dap, di cambiamento di funzioni della Polizia penitenziaria e di affidamento della direzione ai poliziotti stessi. Una proposta profondamente e pericolosamente anti-democratica. Il direttore deve essere un funzionario civile dello Stato, deve garantire la finalità costituzionale della pena, avere spirito manageriale, e non deve essere un maresciallo che organizza l’ordine pubblico interno. Dappertutto, tranne che nelle dittature o nelle giovanissime democrazie post-regime, il direttore non è un poliziotto in divisa. Il progetto di riforma di cui si discute pare (ma non ce n’è conferma istituzionale e pubblica) sia l’esito dei lavori di una Commissione voluta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e composta da tre pubblici ministeri: Nicola Gratteri, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita (quest’ultimo a lungo proprio ai vertici del Dap).

Alcune domande sorgono spontanee: 1) perché affidare a tre pm che si occupano di mafie e colletti bianchi il progetto di riorganizzazione? Il 90% della popolazione detenuta non ha nulla a che fare con queste categorie di reclusi. La vita penitenziaria è fatta di organizzazione di attività, di azioni per la tutela della salute, di capacità di gestione del personale e delle relazioni sindacali. Che c’entra un poliziotto con tutto questo? 2) perché fare una riforma esplicitamente contro chi ci lavora? 3) perché non chiedere un parere a chi come noi si impegna da 30 anni per una pena rispettosa della costituzione?

Se ci avessero sentito avremmo detto che: è giusto accorpare le forze di Polizia, è ingiusto retribuire così tanto il capo del Dap, non è giusto che costui sia un magistrato necessariamente. Avremmo aggiunto che i direttori devono continuare a essere dirigenti pubblici messi a capo di un personale omogeneo e qualificato, che i poliziotti penitenziari che lo vogliono possono andare a lavorare nella Polizia di Stato a cui si può affidare la sicurezza esterna, che dentro le mura del carcere devono operare principalmente operatori civili esperti nel trattamento, tutti funzionalmente dipendenti dal direttore (come avviene in molti stati democratici), che la competenza istituzionale sui penitenziari deve essere del ministero della Giustizia e non degli Interni, che ha invece funzioni di ordine pubblico.

Immaginiamo che a Via Arenula si soffra dell’invadenza della commissione Gratteri. Se il progetto di riforma di cui si parla è quello preannunciato, noi ci opporremo non per difendere l’esistente ma per proporre cambiamenti profondi e sistemici che non guardino a un passato fatto di ordine e militarizzazione ma a un futuro dove la violenza sia quanto meno minimizzata. Siamo certi di non essere soli in questa opposizione. I tanti operatori che lavorano in carcere e le associazioni che gestiscono il trattamento non possono essere del tutto ignorati. È anche a loro che vogliamo dare la parola, è da loro che vogliamo ascoltare proposte innovative che affondino le radici nella loro esperienza, in una grande assemblea pubblica che sarà organizzata a Roma il prossimo 11 novembre.