Si è protratto fino a tarda notte, il Consiglio dei ministri che ha discusso il testo del decreto legge messo a punto dal Guardasigilli Bonafede sulle cosiddette «scarcerazioni» dei detenuti a causa della pandemia e delle celle sovraffollate. Secondo le prime indiscrezioni, il testo, che ha avuto il consenso del Quirinale, impone a magistrati di sorveglianza e giudici di riconsiderare l’invio ai domiciliari degli imputati o dei condannati per associazione mafiosa e terrorismo «entro il termine di 15 giorni dall’adozione del provvedimenti, e successivamente con cadenza mensile», per verificare se sussistano ancora i requisiti e le condizioni al contorno. Ogni provvedimento dovrà essere preso dopo aver «acquisito il parere della procura nazionale antimafia» e anche dell’autorità sanitaria regionale, per verificare la disponibilità di altre strutture residenziali.

Ne abbiamo parlato con il Consigliere del Csm (corrente Area) e giudice presso il tribunale di Bari, Giovanni Zaccaro, che però attende di leggere il testo definitivo prima di commentare i dettagli.

Dalle polemiche di questi giorni si potrebbe credere che i pm dell’antimafia siano una sorta di controparte dei giudici o dei magistrati di sorveglianza che stanno inviando ai domiciliari alcuni detenuti ritenuti particolarmente a rischio Covid-19. Ma è proprio così?

Si sono usate troppe semplificazioni giornalistiche che hanno descritto i pm antimafia separati dall’ordine giudiziario. Naturalmente va evitata l’autoreferenzialità delle procure antimafia e mantenuta l’interlocuzione continua con il gip, con il giudice del processo e col magistrato di sorveglianza, in modo da riportare tutto nella giurisdizione. Ci sono tanti pm antimafia che sono ben consapevoli di essere parte della giurisdizione e lo fanno tenendo presente gli articoli 27 e 111 della Costituzione (responsabilità e processo penale, ndr).

Nei fatti, le decisioni dei magistrati di sorveglianza o dei giudici sulle detenzioni domiciliari o sui differimenti di pena non vengono prese già ora solo dopo aver acquisito il parere delle procure antimafia?

Per decidere una misura cautelare, il parere del pm è sempre ascoltato, anche se non è vincolante, e va ricordato che anche i domiciliari sono una forma di detenzione. Quindi non c’è alcuna «scarcerazione». Detto questo, si parla di circa 370 richieste accolte, ma non si dice mai il numero di quelle rifiutate. Magari sono migliaia, e scriverlo rimetterebbe in ordine il dibattito. Inoltre, si tratta di decisioni tutte diverse: ogni volta il magistrato è chiamato a contemperare le esigenze di sicurezza con la tutela della salute del detenuto, e ciascuno ha la sua storia.

Qualcuno crede che l’annuncio di una norma per riportare in cella i «mafiosi scarcerati» fatta dal ministro Bonafede sia stata una sorta di inaccettabile «avviso» che potrebbe favorire la loro fuga. Ma uno Stato può essere così insicuro e debole?

Quello della salute in carcere è un problema gigantesco, sempre rimosso dai vari governi – tranne il tentativo finito nel nulla del ministro Orlando con gli Stati generali dell’esecuzione penale – che non può essere affrontato con battute o tweet. E purtroppo non si può neppure risolvere in tempi di emergenza come questi, nei quali vengono al pettine i nodi irrisolti. Ora, io comprendo, e non va sottovalutato, l’effetto simbolico che ha nei contesti mafiosi il passaggio dal carcere alla detenzione domiciliare, ma continuo a pensare che di contro c’è anche l’effetto simbolico opposto: uno Stato che garantisce i diritti basilari anche al più pericoloso dei suoi criminali è uno Stato che riafferma la propria forza.

Si potrebbe ribattere che non c’è solo un effetto simbolico, perché le mafie si governano sul territorio, anche stando a casa.

Sì, ma si può continuare a fare il boss mafioso anche dal carcere. Ed è per questo che esiste il 41 bis. Ma un’amministrazione seria si preoccupa anche della salubrità di chi è in 41bis.

Lei non lo abolirebbe, questo regime considerato da più parti lesivo della dignità umana?

Non è uno status permanente, il 41 bis. È comunque da tempo oggetto di dibattito interno alle aree più progressiste dei giuristi. Chi ama la Costituzione deve sempre pensare all’umanità del trattamento penitenziario, ma tutto sta a garantire le infrastrutture che impediscano la comunicazione dei detenuti con l’esterno e che contemporaneamente attuino un vero trattamento.

Secondo le prime indiscrezioni il testo del ministro Bonafede prevede una modifica dell’ordinamento penitenziario per permettere la revoca dei domiciliari nel caso in cui cambino le condizioni di salute pubblica e del detenuto. Ma erano proprio necessarie la sollecitazione del governo e le nuove norme?

Per ecologia del dibattito le norme si commentano quando si vedono scritte. Ma posso dire che qualunque intervento del potere legislativo non può non tenere conto del sovraccarico di lavoro che si riverserà sui tribunali di sorveglianza, che sono centrali nella questione. E che avranno il fiato sul collo dell’opinione pubblica. Il Consiglio superiore della magistratura ha fatto un bando straordinario per coprire le vacanze del personale nei tribunali di sorveglianza, che sono sotto stress per l’emergenza pandemica. Ma ci sono poche vocazioni. È inutile fare le riforme se non ci sono persone, strutture e risorse per attuarle. Il nodo è che in un sistema penale evoluto la pena non coincide solo con il carcere.

Ultima domanda: la querelle Di Matteo-Bonafede sembra ormai essere sfumata. Ma lei cosa ne pensa?

Non ho seguito la vicenda e mi interessa relativamente, però posso dire – anche a proposito delle esternazioni fatte tempo fa dal consigliere Lanzi – che già da lunedì la mia proposta al Csm sarà di lavorare a un “codice” della comunicazione esterna dei singoli componenti. Io rivendico il diritto dei componenti del Csm di partecipare al dibattito pubblico, come sto facendo ora con lei, ma dovremmo metterci d’accordo per trovare le forme più continenti per farlo.