L’allarme lanciato ieri dai sindacati di polizia penitenziaria è un colpo allo stomaco di chi ha ancora stampata negli occhi l’immagine dei detenuti sul tetto di alcune carceri italiane, emblema dell’inizio del lockdown. «Dai dati forniti dal Dap aggiornati al 13 settembre scorso si evince che ben 13 mila agenti, più di un terzo degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, non si sono ancora sottoposti neppure alla prima dose della vaccinazione anti-Covid». A sottolinearlo è il segretario nazionale Uilpa Gennarino De Fazio, schierato contro l’obbligo di Green pass per i sui colleghi. Il sindacalista avverte che in caso di sospensioni dal servizio, essendo l’organico del Corpo già in «gravissima deficienza», arriveranno a «17 mila» le unità mancanti. Un numero che non permetterebbe di garantire la sicurezza delle carceri, è l’avvertimento. Ma dagli stessi dati citati da De Fazio scopriamo che, al contrario, su un totale di 52.593 detenuti presenti al 6 settembre negli istituti italiani, le dosi di vaccino fino a quel momento somministrate ai reclusi sono state 73.155. Ossia la stragrande maggioranza ha ricevuto almeno la prima dose, considerando pure i nuovi giunti e i detenuti delle case circondariali, dove il fenomeno delle porte girevoli è molto elevato.

E ALLORA VENGONO in mente quei primi giorni di marzo 2020, quando la paura del Covid-19 e delle nuove regole che avrebbero limitato ancora di più la vita interna entrava nei penitenziari di tutto il mondo; nei nostri divenne in alcuni casi “rivolta”. La paura di fare «la fine del topo», «di rimanere ancora più isolato», di «essere dimenticato del tutto», «di non avere più i permessi». Fu l’inizio della protesta, che durò poche ore ma che – in alcuni, sporadici casi, per fortuna – diede inizio ad una terribile scia di violenze e torture inflitte dagli agenti sui detenuti, come vendetta. Da allora, tutto è cambiato dentro le carceri, sia in quelle della “rivolta” – 21 tra cui Rieti, Bologna, Modena, Melfi, Santa Maria Capua Vetere, Foggia, ecc -, sia negli istituti dove i detenuti hanno accettato senza grandi clamori ma altrettanto dolorosamente le misure anti Covid. La vita dei reclusi è sicuramente peggiorata, tanto che ora, a distanza di un anno e mezzo, pur di tornare ai colloqui in presenza, alle attività trattamentali di gruppo, di avere accesso ai permessi vari, e pur di non avere problemi di esclusione dentro le celle e nei reparti (le regole di convivenza che vigono tra i detenuti, da sempre, sono molto rigide e molto rispettate, qualunque sia la provenienza del recluso), la stragrande maggioranza della popolazione carceraria ha accettato – volente o nolente – di vaccinarsi. Loro non possono ribellarsi.

IL MANIFESTO è andato in uno dei carceri della rivolta, a Rieti, dove numerosi detenuti il 9 marzo 2020, poco dopo ora di pranzo, salirono sui tetti e distrussero tutto ciò che potevano distruggere. Qualcuno riuscì a forzare l’infermeria del Sert e a fare incetta di metadone e altri farmaci. Tre detenuti furono ritrovati morti il mattino seguente: Marco Boattini di 40 anni, Ante Culic di 41 anni e Carlo Perez Alvarez di 28 anni. A differenza di altri carceri, come Modena, per esempio, sono tutti morti sul posto.

UN ISTITUTO NUOVO, aperto nell’ottobre 2009, maschile e di media sicurezza, con 9 sezioni penali, due protette per i sex offender, con “sorveglianza dinamica”; un reparto degenza con cinque stanze, un’area sanitaria con studi di radiologia, odontoiatria, oculistica e il Sert. E, prima della rivolta, anche una cucina e una grande sala comune. «Architettonicamente – ci aveva spiegato il garante del Lazio, Stefano Anastasia – uno dei pochissimi carceri che vagamente rispondeva alla previsione del regolamento del 2000, mai attuato, secondo il quale in ogni istituto avrebbe dovuto esserci un refettorio». Il giorno della nostra visita – il 15 settembre 2021 – vi erano recluse 351 persone di cui poco meno della metà straniere, su 295 posti regolamentari. Nell’istituto, dove ci sono pochi detenuti in custodia cautelare (circa 50), 78 persone sono in carico al Sert (di cui 19 stranieri), ma i consumatori di sostanze e gli alcolisti sono molti di più. Il reato più diffuso è la violazione dell’articolo 73 della legge sulle droghe: è il 36% dei carcerati, «diviso equamente tra italiani e stranieri», riferisce il responsabile dell’Area educativa, Luca Agabiti. Diffusi i problemi di salute mentale, anche se solo un paio di persone sono in attesa di un posto nelle Rems. «Ma la gestione di queste persone malate ricade non solo sul personale ma anche sulla stessa popolazione carceraria», fa notare la direttrice Vera Poggetti, un caso più unico che raro di direttore a tempo pieno, dal gennaio 2012. Ha lavorato a lungo con Carmelo Cantone quando era direttore a Rebibbia, uno dei migliori. E si vede.

IL CARCERE DI RIETI, attorniato dalle belle montagne, è uno dei pochi che può sfoggiare una dirigenza quasi tutta al femminile, anche se le poche agenti donne non operano nei reparti. Noemi Gennari, la Comandante di polizia penitenziaria e la sua vice Daniela Nobili sono preparate e sensibili. Fanno fatica a parlare di quel giorno, di quei giorni. La direttrice Poggetti si commuove quando ricorda il senso di smarrimento davanti a quella improvvisa protesta, la devastazione che apparve davanti ai loro occhi quando tutto rientrò e, grazie alla mediazione di alcuni detenuti, i rivoltosi tornarono ai loro posti. «Gli operatori in turno non erano sufficienti ad affrontare la drammatica situazione, mi chiedevo come avremmo fatto. Poi ho visto cominciare ad arrivare i colleghi che di spontanea volontà sono tornati a lavoro – racconta con la voce incrinata – ma non sapevamo da che parte cominciare». In tutto, nel carcere lavorano un centinaio di agenti (l’organico previsto sarebbe 180 unità), 3 educatori, 1 mediatore culturale e nessuno psicologo di ruolo, solo «3 esperti ex articolo 80», ossia liberi collaboratori.

Dal primo lockdown, spiegano, le associazioni di volontariato esterne hanno interrotto le loro attività. Durante la prima ondata non ci sono stati focolai, nella seconda un focolaio Covid con 9 persone positive nel reparto “Protetti”. «Qui i detenuti sono tutti, o quasi, vaccinati con doppia dose», fa il conto Poggetti. La Dad, per gli studenti reclusi, non è mai partita per carenza di dispositivi, personale e difficoltà di collegamento, anche se gli studi sono andati avanti in qualche modo grazie alle dispense fatte arrivare da maestri e professori tramite gli operatori. «Abbiamo sempre garantito il diritto allo studio», assicura la direttrice.

E ALLORA PERCHÉ? La domanda viene da sé. «Ce lo siamo chiesto, continuiamo a chiedercelo, non è facile rispondere. La rivolta è stata qualcosa di irreale, pochi hanno dato una risposta al perché. Poi ci sono le indagini in corso…», risponde Vera Poggetti. C’è stato un consiglio di disciplina per le persone che hanno partecipato alle proteste, in 40 sono stati trasferiti, a molti sono state applicate sanzioni disciplinari. La cucina comune, da cui erano stati divelti gli strumenti usati come clave, è stata chiusa. I farmaci sono stati spostati in posti meno accessibili. Le ore di apertura delle celle sono diminuite («ora sono aperte per otto ore al giorno»); sono stati revocati i permessi. «Poi, il difficile però è stato recuperare il rapporto, da entrambi i lati. Per molti detenuti la rivolta è passata, è un fatto chiuso. Molti hanno chiesto scusa, noi ancora siamo turbati, ma è solo un ricordo».

AURELIO E ANDREA sono due detenuti che erano presenti in quei giorni. Aurelio, 31 anni, detenuto in questo carcere dal 2018 e con fine pena nel 2025, ha partecipato alla protesta «perché in televisione avevamo visto gli altri carceri in rivolta e…». Sorride dietro gli occhiali da intellettuale, come un ragazzo qualunque, con il suo corpo grande, atletico e tatuato. «Ma non ho mai avuto intenzione di scappare né di fare del male a nessuno. Quando ho saputo dei morti mi è dispiaciuto tanto ma non mi sento responsabile: quei ragazzi erano tossicodipendenti, non dovevano stare in carcere. Ho capito che abbiamo sbagliato. Però ne stiamo ancora subendo le conseguenze».

Andrea, 50 anni, invece si è barricato in cella con i suoi compagni di stanza e guardava quello che succedeva proprio davanti ai suoi occhi con incredulità. «E paura», confessa. «Io ho famiglia, mi manca un anno per uscire, non volevo conseguenze». E ora? «Sono sei mesi che stiamo chiusi. Per colpa di qualche testa calda, di quelli che hanno distrutto tutto e che senza buon senso non hanno pensato alle conseguenze, ora abbiamo meno libertà». I poliziotti? «Si sono irrigiditi, giustamente. Però lo voglio dire chiaramente: a me il carcere ha salvato la vita». Per Aurelio è diverso: «Da quando sto qui ho fatto sicuramente molta strada, ma prima, in altri carceri, mi hanno rovinato: la prima volta che mi hanno arrestato avevo 18 anni, il carcere allora mi ha solo peggiorato». Capiscono i sentimenti e i risentimenti di chi sta dall’altra parte delle sbarre ma le immagini di Santa Maria Capua Vetere no, quelle fanno solo rabbia. «Non c’è alcuna giustificazione, ne abbiamo parlato qui anche con gli agenti, che sono d’accordo con noi. Anche a loro ha fatto schifo guardare quelle immagini».

AL NETTO di un’intervista che si svolge davanti alla dirigenza del carcere, Aurelio e Andrea sembrano aver fatto pace con quel luogo, vorrebbero prendersi le proprie responsabilità. E andare avanti, nella vita. I poliziotti penitenziari, coloro che dovrebbero apparire ai loro occhi come un esempio di vita possibile, dovrebbero sempre fare altrettanto. Anche adesso, con il Covid. Con il vaccino e con il Green pass.