La Conferenza nazionale che si apre domani a Genova è un’occasione per riaprire la partita sulle politiche sulle droghe e tutto ciò che esse comportano. Va comunque a merito di questo Governo e della Ministra Dadone averla rimessa in agenda. Le associazioni e gli operatori che non hanno mai mollato la presa in questi anni di dimenticanze e di oblio sono in attesa di segnali e di risposte, a partire dalla questione carceraria, sintomatica di un modo di intendere le droghe e le pene.

Tutto è cambiato con la legge Jervolino-Vassalli che, nel lontano 1990, ha portato in Italia la dottrina reaganiana della war on drugs. Da allora la popolazione carceraria è in aumento costante e l’attuale legge sulla droga ne è il principale motore. Proprio quella legge fu il primo esempio italiano di quello che poi abbiamo imparato a chiamare populismo penale: «Un uso congiunturale del diritto penale tanto duramente repressivo e antigarantista, quanto inefficace rispetto alle dichiarate finalità di prevenzione», ma diretto piuttosto «a ottenere demagogicamente il consenso popolare», come ha scritto Luigi Ferrajoli. Ogni discorso pubblico intorno alla riforma della giustizia penale e del carcere che non faccia i conti con la legge sulla droga è un mero flatus vocis, magari suadente, ma inefficace.

Ancora l’ultimo Libro bianco prodotto da La Società della Ragione e dalle associazioni che si riuniscono nella giornata autoconvocata di oggi a Genova testimonia di questa centralità degli effetti delle politiche sulle droghe nel funzionamento della giustizia e del carcere. Quasi 190 mila persone sottoposte a procedimento penale per detenzione di sostanze stupefacenti nel 2020, il primo anno del Covid, in cui tutte le statistiche giudiziarie penali hanno subito un drastico calo. Processi efficientissimi, che portano a condannare 7 imputati su 10, mentre per reati contro la persona e il patrimonio il rapporto crolla a 1 su 10. Il 30,8% degli ingressi in carcere sono causati da quello stesso unico articolo di legge.

Si può credibilmente parlare di alternative al carcere, se carcere e giustizia sono soffocati da una legge finalizzata al controllo e al disciplinamento dei consumatori di sostanze stupefacenti, come quei 30-40mila che ogni anno vengono segnalati al prefetto per l’uso di droghe e rischiano di iniziare un calvario che, anche quando non arriva al carcere, gli impedisce una vita normale nel succedersi di sanzioni amministrative inabilitanti?

Né la politica del bastone e della carota enfatizzato dalla legge Fini-Giovanardi del 2006 ha prodotto i suoi risultati sul piano delle alternative al carcere: nonostante il termine più alto per l’accesso all’affidamento in prova terapeutico per tossicodipendenti, i beneficiari al 15 dicembre 2020 erano solo 3404, a fronte dei 18.320 affidati ordinari, mentre il lavoro di pubblica utilità per violazione della legge sulla droga coinvolgeva 700 persone in tutta Italia, e invece per la violazione del codice della strada riguardava più di 8000 persone. E naturalmente, i pochi tossicodipendenti affidati in quanto tali arrivano da un primo assaggio di carcere; al contrario, la gran parte degli affidati ordinari vi arrivano direttamente dalla libertà.

Con questi indirizzi, di fatto o di diritto, il carcere poi continua a essere il lazzaretto che è, dove ancora – contro ogni pratica e indicazione terapeutica consolidata – si prosegue diffusamente nella pratica di indurre l’astinenza forzata, magari compensata da eccessi di psicofarmaci.

A questi nodi rispondono sia la proposta di legge Magi ancora pendente alla Camera dei deputati che il prossimo referendum sulla cannabis. La Conferenza e il Governo sapranno fare altrettanto?

ERRATA CORRIGE

Un errore di trasmissione da parte di fuoriluogo.it ha mandato in pubblicazione nello speciale dedicato alla Conferenza sulle droghe in edicola il 26 novembre un inizio dell’articolo con una frase che tradiva il pensiero dell’autore. Abbiamo perciò corretto il testo in questa pagina.