A meno di tre settimane dall’entrata in vigore, il cosiddetto «decreto Bonafede» finisce già davanti alla Corte costituzionale. A Palazzo della Consulta non è ancora arrivata nessuna ordinanza, ma sembra che più di un tribunale stia preparando il rinvio della discussa norma alla Corte.

Messo in piedi in fretta e furia dal ministro di Giustizia per fermare la polemica sulla detenzione domiciliare concessa ad alcuni boss mafiosi, particolarmente malmessi in salute e dunque a rischio durante la prima fase dell’emergenza Coronavirus, il decreto n. 29 del 10 maggio 2020 è in dubbio di costituzionalità. Almeno stando alla questione di legittimità che per primo qualche giorno fa il giudice di sorveglianza del Tribunale di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha sollevato in particolare sull’articolo 2

. Perché, secondo il magistrato, viola il diritto di difesa laddove prevede che «il provvedimento con cui l’autorità giudiziaria revoca la detenzione domiciliare o il differimento della pena è immediatamente esecutivo», senza permettere neppure un contraddittorio sull’eventuale variazione dei motivi che hanno giustificato i domiciliari («la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei», per esempio). Inoltre il fatto che tale provvedimento valga solo per i detenuti accusati o condannati di reati di mafia o terrorismo e per coloro che sono reclusi in regime di 41 bis, rende la norma incostituzionale perché equivale ad una pena ulteriore applicata in modo discriminante.

Il giudice di sorveglianza di Spoleto ha rinviato alla Consulta, al premier Conte e ai presidenti di Camera e Senato gli atti riguardanti il caso di un uomo condannato a 5 anni e sottoposto a trapianto di organi a cui era stata concessa la detenzione domiciliare e che, secondo il decreto Bonafede, avrebbe dovuto rientrare in carcere malgrado il trattamento post trapianto a cui era sottoposto.