Per venti giorni hanno assistito alla sua agonia, senza fare nulla per salvarlo. Per questo il tribunale penale di Siracusa ha condannato cinque medici per l’omicidio colposo di Alfredo Liotta, un uomo di 41 anni morto il 26 luglio 2012 nel carcere siracusano dove era detenuto. Ci sono voluti otto anni perché si concludesse il primo grado del processo a carico di otto medici, cinque dei quali ritenuti colpevoli.

A darne notizia ieri è stata l’associazione Antigone perché, come ha spiegato l’avvocata Simona Filippi che fa parte del direttivo dell’organizzazione, «il caso venne portato a conoscenza del difensore civico di Antigone da parte della moglie del detenuto. Il nostro ufficio una volta acquisite tutte le carte sullo stato di salute dell’uomo presentò un esposto alla Procura della Repubblica di Siracusa nel quale si sottolineava come il personale medico e infermieristico che si succedeva dal detenuto, non avesse saputo individuare e comprendere i sintomi né il decorso clinico di Alfredo Liotta e che tali carenze conoscitive ne avessero determinato il decesso. Quell’esposto consentì di riaprire il caso sulla morte dell’uomo e portò nel marzo 2017 al rinvio a giudizio dei medici. Alle condanne – conclude l’avvocata – si è riusciti ad arrivare anche grazie al lavoro della giovane Giudice che ha condotto il processo che, attraverso un dibattimento serrato, ha permesso di evitare la prescrizione dei reati».

«Nel corso del dibattimento – prosegue Filippi – è stato accertato che i medici del carcere di Siracusa che si sono succeduti nella cella di Liotta negli ultimi 20 giorno della sua vita sono rimasti completamente passivi davanti alle sue patologie. L’uomo soffriva di diverse problematiche: epilessia, anoressia, depressione, emorroidi. Per venti giorni non aveva più bevuto né mangiato e questo, assieme alla perdita di sangue dovuta alle emorroidi, portò alla sua morte. Il tutto senza che i medici siano intervenuti in alcun modo».

Fa notare il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, che «il caso di Liotta chiama in causa il tema della salute in carcere, come bene supremo da tutelare. La morte del detenuto fu un vero e proprio caso di abbandono terapeutico. La vicenda pone anche il caso di quanto sia lungo e complesso avere giustizia quando si è detenuti. Una giustizia che serve alla famiglia e che speriamo aiuti a costruire un mondo più solidale e attento alle fragilità».