Non capita tutti i giorni di poter dare notizia del ritrovamento di un’importante fonte per la Storia dell’arte. Figuriamoci poi se in questa fonte è compresa una «nuova» biografia di Michelangelo Merisi. Sì, proprio lui: Caravaggio!
Un manoscritto che dovette avere una certa circolazione, come attesta il fatto che vi ebbe sicuramente accesso anche Giovan Pietro Bellori, poiché le annotazioni di sua mano sulle Vite scritte da Giovanni Baglione, e pubblicate nel 1642, sono confrontabili con precisione proprio con passi di Celio. Il ritrovamento del manoscritto delle Vite di Gaspare Celio era stato annunciato dal suo scopritore, Riccardo Gandolfi, almeno dalla mostra milanese Dentro Caravaggio (a cura di Rossella Vodret, 2017-’18). E già dal saggio in catalogo, co-firmato con Alessandro Zuccari, cresceva l’attesa.
Com’è tratteggiato il Caravaggio di Celio? Come guarda il difensore della tradizione, il paladino del ‘buon disegno’, cresciuto sugli esempi del manierismo di matrice toscana, a quel pittore «di brutta e piccola statura, solo intento al suo ritrarre et alli piaceri»? Per comprendere al meglio il profilo dell’artista è necessario ricollocarlo idealmente nel contesto della Roma di cui anche quelle pagine furono il frutto. Una piazza ipercompetitiva, segnata da gelosie e rivalità che ebbero, inevitabilmente, delle ricadute anche sul modo in cui si guardava a Caravaggio. E al di là dei pittori, che spesso entravano in lotta per accaparrarsi commesse prestigiose e profittevoli, anche chi metteva mano alla penna e scriveva spesso nutriva simili antipatie. Basterà l’esempio dell’inimicizia proprio tra Celio e Giovanni Baglione, autore delle fortunate (e a tratti persino pettegole) Vite degli artisti.
L’eco di queste schermaglie filtra dal profilo del Merisi: là dove, ad esempio, Celio racconta della rottura tra Prospero Orsi e il Cavalier d’Arpino, e del modo in cui il primo, da tempo vicino a Caravaggio, divenisse un sostenitore della commissione per le tele Contarelli in San Luigi dei Francesi. Certo, non ci si sarebbe aspettato di leggere che anche all’avvio della propria carriera Caravaggio aveva alle spalle un omicidio, a Milano. O meglio, forse un coinvolgimento in un evento finito in tragedia. Resta il fatto che Celio lo scrive nero su bianco: «avendo ucciso un suo amico, se ne andò a Roma». Una consonanza con quell’enigmatica (perché telegrafica e abbreviata) annotazione che Giulio Mancini aveva vergato su uno dei manoscritti delle proprie Considerazioni sulla pittura (1617-’21), quello conservato alla Marciana di Venezia. Insomma fu un delitto a spingere il pittore a cercar fortuna a Roma. Come non bastasse l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, il 28 maggio 1606, a gettare una luce fosca sulle vicende del lombardo; o ancora i vari atti processuali in cui egli è coinvolto. Un legame, quello tra i fatti della vita e dell’arte, su cui già i contemporanei avevano avuto modo di calcare la mano. In buona sostanza, una pittura come la sua, così cruda e priva di ‘regole’, era in tutto adatta a un uomo privo di bussola morale, facile a por mano alla spada per qualche inezia.
Se si mettono a paragone la prima biografia a stampa, quella contenuta nello Schilder-Boeck di Karel van Mander (1604), e le righe di Celio, emerge con forte chiarezza il diverso posizionamento rispetto a Caravaggio. Il primo, di gran lunga il critico più simpatetico rispetto al naturalismo caravaggesco – che egli interpreta alla luce delle categorie della trattatistica olandese e del complesso legame tra il disegno dal vivo (nae ’t leven) e «a partire» dall’immaginazione (uyt den gheest) –, critica Caravaggio soprattutto per il suo essere incline alle baruffe. Non è coinvolto, cioè, nelle varie rivalità della piazza romana. Al contrario, Celio insiste sul fatto che il Merisi riceveva lodi ben superiori alle sue capacità. Scrive infatti che, scoperte le tele Contarelli, «la fama sonò fuora di modo» e, poco dopo, aggiunge che «fu lodato esso Caravaggio oltre il dovere dalle persone non erudite». Ma sono i «pittorecoli» e non chi davvero ha contezza delle cose dell’arte a lodare quei lavori.
È un punto di vista che esprime insofferenza rispetto al modo di dipingere del Merisi, perché è opposto a tutto ciò che Celio difende. E cioè lo studio dei grandi maestri del Cinquecento, l’applicazione nell’esercizio del disegno, in breve tutte quelle regole che conducono alla ‘buona’ pittura. Eppure Celio non rimase del tutto insensibile alla novità di quelle opere. Tant’è che attribuisce all’anziano Giovanni De Vecchi – nato nel 1537– un giudizio sui quadri di San Luigi dei Francesi che lascia un margine di lode: «questo virtuoso, per non saper disegnare ha fatto assai». Ma, forse, è ancora più significativo il passo successivo: «da tale sussurramento Michele pigliò ardire oltre modo», a dimostrare in fondo, ancora una volta, quel legame tra il (cattivo) carattere dell’artista e il suo modo di dipingere tutto fuori legge.