«Se vogliono continuare a battere sulle pentole, gli consiglio di comprarne una di acciaio perché la rivoluzione durerà ancora molti anni». Così il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha commentato il persistere dei «cacerolazos» da parte dell’opposizione. Nei quartieri bene all’est della capitale Caracas, le battiture di pentole fanno da colonna sonora alle devastazioni messe in atto dai settori oltranzisti della protesta, iniziata lo scorso 12 febbraio: cassonetti e pneumatici bruciati, autobus e metropolitane devastate, blocchi stradali, scontri notturni con la polizia, che risponde con lacrimogeni. Bilancio: 8 morti, 137 feriti e 80 fermi.
«Ma la gente tranquilla comincia ad averne abbastanza della puzza di fumo, delle moto potenti che scorrazzano e magari sparano – dice al manifesto Rodrigo, un abitante di Los Cortijos, quartiere prevalentemente di opposizione – l’altra sera, un gruppo che organizzava una veglia di preghiera sotto le finestre non ha gradito l’arrivo di una trentina di giovani con spranghe come quelli che hanno assediato la Tv nazionale qui vicina». Di giorno, gruppi di studenti – sempre meno numerosi – manifestano vestiti di bianco mostrando fiori dello stesso colore e cartelli contro «la dittatura cubano-venezuelana» e la «repressione». Di notte, le bande provocano incendi e devastazioni.

La situazione sembra più caotica in alcune grandi città di provincia come Maracaibo, San Cristobal o Valencia. Nel Tachira, ai confini della Colombia, il governo ha inviato gruppi di paracadutisti denunciando l’entrata di paramilitari. Nel Zulia, ieri sono state sequestrate 60 tonnellate di alimenti e articoli per l’igine personale e 40 veicoli destinati al mercato nero. L’ennesimo capitolo della «guerra economica», secondo il governo, che ha anche mostrato centinaia di moto di grossa cilindrata, sequestrate durante le proteste e ora messe all’asta. Maduro ha nuovamente fatto appello al «popolo cosciente e organizzato», annunciando l’istituzione di «commando popolari antigolpe in ogni fabbrica, in ogni centro di lavoro, in ogni quartiere, in ogni università».
«È in corso un tentativo di destabilizzazione violenta del paese – ha dichiarato Ignacio Ramonet, direttore del Diplo spagnolo – Una piccola minoranza, in base a una protesta studentesta senza vere rivendicazioni e appoggiata dai grandi media ha scatenato una serie di violenze che hanno provocato morti, feriti e danni. Il Venezuela – ha continuato – non è nuovo a queste crisi, provocate dall’opposizione interna con appoggi esterni».
Una crisi che fa leva su problemi reali – insicurezza e alta inflazione – ma che mostra anche due visioni opposte per affrontarla, due progetti di paese. L’uno, quello del socialismo bolivariano, basato sulla redistribuzione della rendita petrolifera a favore delle classi non abbienti e sulla sovranità del paese rispetto al grande capitale multinazionale. L’altro, quello della Mesa de la unidad democratica (Mud), che vorrebbe un ritorno al neoliberismo e alle privatizzazioni e al modello di gestione della IV Repubblica. Certa stampa parla di «primavere latinoamericane» contro presunte dittature dei governi progressisti: dimenticando che, pur con tutti i suoi problemi, il Venezuela non è il Cile di Pinera, in cui gli studenti hanno dovuto protestare per l’istruzione gratuita e contro le privatizzazioni. Contro Maduro, le parti s’invertono: a scendere in piazza sono prevalentemente studenti delle scuole private, il cui basso livello – hanno fatto notare alcuni professori – è evidente dal loro modo di scrivere i messaggi contro «la dittatura venecubana». Il Venezuela non è neanche il Brasile, dove gli studenti hanno protestato contro il caro trasporti e contro la repressione nelle favelas. Quanto alla «dittatura», basta andare in una qualunque edicola del paese per vedere a quale colore appartenga la maggioranza della stampa, oppure soffermarsi sui risultati delle urne delle ultime 18 elezioni.
Quella che si sta giocando in Venezuela è una partita per la rappresentanza e per i ruoli all’interno della litigiosissima Mud, che vorrebbe pensionare Henrique Capriles, ma non è del tutto convinta da Leopoldo Lopez, il «duro» di Voluntad popular, ora agli arresti con l’accusa di aver diretto le violenze di piazza. A sostenerlo da vicino, Maria Corina Machado e Antonio Ledezma, animatori della campagna per la «salida» (l’uscita) di Maduro dal governo con ogni mezzo, che oggi saranno di nuovo in piazza. Molti, però, si sono dissociati dalla via violenta: a partire da Capriles, che ha invece rilanciato la vecchia tattica del «dividi et impera» all’interno del chavismo accusando Diosdado Cabello (presidente dell’assemblea) di essere dietro ai cecchini che hanno ucciso dei manifestanti in piazza: per far le scarpe a Maduro. «Gli si è fulminato il cervello», ha ribattuto quest’ultimo a Capriles. E un gruppo di associazioni e parlamentari ha chiesto per la terza volta al parlamento di togliere l’immunità a Machado, accusata di prendere ordini da Washington.