Venezuela e Ecuador, i due paesi latinoamericani Opec, hanno chiesto a Vienna la riduzione della produzione petrolifera, auspicando un prezzo di 100 dollari al barile. Rafael Ramirez – ministro degli Esteri venezuelano, già ministro del Petrolio e presidente dell’impresa petrolifera nazionale Pdvsa – ha dichiarato: «A fronte di una sovrapproduzione valutata a 2 milioni di barili di crudo al giorno, siamo disposti ad appoggiare una diminuzione di 1,5 milioni di barili al giorno», ovvero il 5% in meno dell’attuale produzione di 30 milioni. Anche gli altri paesi membri – ha chiesto – dovrebbero però adottare misure analoghe. «Dobbiamo fare un bilancio che porti beneficio a produttori e consumatori», gli ha fatto eco Pedro Merizalde-Pavon, il rappresentante dell’Ecuador, il più piccolo produttore Opec. Il Venezuela ha le maggiori riserve di idrocarburi al mondo. Nel sottosuolo custodisce 298, 3 miliardi di barili: più dei 265,9 miliardi dell’Arabia saudita, dei 174,3 del Canada e dei 44,2 miliardi degli Usa.

Nonostante notevoli sforzi e risultati per diversificare l’economia nazionale, Caracas resta dipendente dalla rendita petrolifera, e il grosso delle sue esportazioni è legato al petrolio. Ma è un crudo che deve essere trasformato e il paese non ha ancora l’autonomia industriale necessaria. Nell’attesa, Caracas diluisce il suo petrolio con la nafta, che inquina e costa caro importare: non si trova a prezzi interessanti nella regione. Dunque conviene di più importare petrolio leggero, da mischiare al crudo extrapesante. A ottobre, ne è arrivato dall’Algeria e ne arriverà dalla Russia. In Venezuela, fare il pieno a un grosso serbatoio costa meno di una bottiglia d’acqua e il prezzo del combustibile è sussidiato. Così cresce il contrabbando con la Colombia, dove la benzina ha invece prezzi altissimi: un business che rende più del narcotraffico e che alimenta i tentativi destabilizzanti contro il governo socialista. E nel paese è ripreso il dibattito sulla possibilità di aumentare il prezzo del carburante.

Sulla redistribuzione della rendita petrolifera – basata sulla tassazione alle grandi imprese e i ricavi di Pdvsa -, il Venezuela ha impostato il quadro del «socialismo bolivariano». Un progetto basato sulla ripresa di sovranità, giunta ai minimi storici durante l’ultimo periodo della IV Repubblica. Prima dell’arrivo al governo di Hugo Chavez, nel ’99, il barile di petrolio veniva svenduto a 8 dollari ed era pronto un disegno di legge per privatizzare la Pdvsa, già ridotta a un comitato d’affari delle grandi multinazionali, luogo di privilegi e corruttele. Un potente coacervo di interessi, principalmente legato agli Usa che, nel 2002, scatenò il golpe contro Chavez, colpevole di aver nazionalizzato le grandi imprese e aver colpito il latifondo.

Da allora, Caracas ha venduto il proprio petrolio fino a circa 100 dollari al barile. Ed è stato proprio Chavez ad aver rivitalizzato il ruolo dell’Opec, nel pieno della crisi finanziaria globale del 2008. Allora, di fronte alla caduta del prezzo del barile, l’Opec si accordò per ridurre la produzione. Ma ora il quadro geopolitico e quello del mercato mondiale sono cambiati, a fronte anche di nuovi conflitti politici interni e della crescente influenza dei paesi che non fanno parte dell’Opec. Anche in questo contesto, il Venezuela ha perciò denunciato la tecnica estrattiva del fracking, praticata dagli Usa per inondare il mercato di petrolio di scisto a basso prezzo e devastare l’ambiente.

Sul Venezuela – che ha scelto di onorare il proprio debito estero – incombono anche le imminenti sentenze dei tribunali di arbitraggio internazionale; sempre favorevoli alle grandi transnazionali, che obbligherebbero Caracas al pagamento di somme stratosferiche per compensare le nazionalizzazioni petrolifere. Per questo, resta aperta la questione della vendita delle raffinerie venezuelane negli Stati unititi: per evitare che siano messe sotto sequestro dai tribunali Usa e per procurare denaro liquido a Caracas. Le tre raffinerie della filiale Citgo Petroleum forniscono oltre 750.000 barili al giorno per un valore di 10.000 milioni di dollari. La vendita di Citgo frutterebbe al compratore l’accesso a una delle maggiori reti di raffineria della zona centrale degli Stati uniti e della costa del Golfo del Messico, approfittando della produzione messicana di crudo.

«La situazione è seria, ma siamo preparati ad affrontarla», ha detto il presidente Maduro, rassicurando che le garanzie sociali verranno mantenute e «anzi ampliate», come il ruolo del Venezuela nel Petrocaribe, l’alleanza in cui Caracas fornisce petrolio a basso prezzo in cambio di alimenti e servizi educativi.