Trappole fatte passare per grandi occasioni e una struttura costruita su un’aspettativa infinita verso la famiglia e le sue risorse. Per Chiara Saraceno «noi oggi stiamo fronteggiando i risultati dell’aver avuto un welfare frammentato, disomogeneo, ineguale, sbilanciato e che non era attrezzato per misurarsi sia con i mutamenti per quanto riguarda i comportamenti femminili – la presenza delle donne nel mercato del lavoro – sia con la crisi economica».

Professoressa Saraceno, come fotograferebbe sinteticamente il welfare italiano in relazione alle donne?

Il welfare italiano è ancora largamente basato su una aspettativa di solidarietà famigliare, innanzitutto. Si tratta di un modello in cui per esempio i genitori sono responsabili dei figli e delle figlie molto a lungo, quindi una forte vicinanza famigliare declinata poi lungo linee di genere per cui prevalentemente ci si aspetta che siano gli uomini, padri e mariti, a provvedere all’aspetto economico, e le donne, madri, mogli e non solo, a provvedere alle questioni complesse della cura e del lavoro domestico; ciò non solo nel nucleo famigliare ma anche nella più vasta rete parentale. Ci si aspetta per esempio che i figli adulti vengano aiutati dai genitori e che siano i nonni e le nonne a provvedere alla cura dei nipoti quando le figlie o le nuore non possono farlo. A volte questa aspettativa viene esplicitata, come nel caso della cosiddetta «Opzione donna».

A tal proposito, riguardo ciò che compare nella Legge di stabilità sulla cosiddetta «Opzione donna» che offrirebbe a chi, tra le lavoratrici, ha i requisiti maturati entro il 31 dicembre 2015 di accedere alla propria richiesta di pensione sembra tutto deciso. Cosa ne pensa?

È un esempio calzante di ciò di cui parlavo prima. La situazione è così irrigidita e priva di servizi che questa «Opzione donna» viene vissuta come un diritto e un privilegio dalle donne che vi ricorrono e che non la vedono come una fregatura quale invece è. La giustificazione formale è che con la riforma Fornero le donne vicine all’età della pensione si sono viste sollevare di colpo, e in un modo piuttosto brutale, l’età pensionabile dunque si è pensato a questa «via di uscita a tempo»; tuttavia è una possibilità molto costosa, lo possono fare solo se accettano di passare tutto nel contributivo mentre sarebbero donne che, per l’età che hanno, potrebbero probabilmente andare in pensione con il sistema misto – gli anni precedenti la riforma con il sistema retributivo e gli anni successivi con quello contributivo. Invece ora possono andare in pensione se accettano solo quest’ultimo e per giunta con una decurtazione in alcuni casi cospicua, quindi ci perdono e parecchio. Un’ulteriore considerazione potrebbe essere: perché questa opzione solo alle donne e non anche agli uomini? La spiegazione sottesa è sempre la stessa, ed è quella fornita anche da Renzi: le donne potranno finalmente occuparsi dei nipoti. Il problema non è la legittima godibilità o meno dei nipoti ma il fatto che in questo paese i nonni sono diventati una risorsa essenziale per le giovani coppie con figli che non possono ancora badare a se stessi. Con questo si sancisce ancora una volta che il welfare familistico viene fatto pagare alle donne che forniscono servizi gratuiti, davvero una perfetta quadratura del cerchio. Inoltre, forse è bene aggiungere che quelle donne che vanno in pensione magari in anticipo non solo si occuperanno dei nipoti ma si dovranno occupare, e ne esistono molte che già lo fanno o preventivano di farlo, di genitori anziani in condizioni di fragilità, cioè pagano la resa di un servizio che non c’è.

A proposito del lavoro di cura, delle collaborazioni domestiche e di sostegno alle famiglie di appartenenza, qualcuno parla di modalità ormai diffuse di «welfare fatto in casa». E oltre al lavoro delle donne nella rete parentale, meriterebbe attenzione la situazione delle assistenti alle persone (isolamento, salario basso, orari impraticabili…). Tutto ciò sta a indicare ancora una volta un’insufficienza dei servizi pubblici?

Ne è la diretta conseguenza, sì. L’Italia è uno dei paesi in cui i servizi per le persone non autosufficienti sono più scarsi. Negli ultimi 30 anni l’equilibrio demografico è molto cambiato senza che le politiche sociali ne abbiano tenuto conto. Certo che l’invecchiamento viene messo a tema per quanto riguarda la spesa pensionistica o quella sanitaria legata alla maggiore vulnerabilità, tuttavia sembra sempre che la famiglia – anche allargata – ce la possa fare non tenendo conto che proprio a causa della trasformazione demografica le fisionomie e composizioni famigliari sono cambiate molto. Chi può permetterselo spesso ricorre alle badanti – parola che trovo orribile – ma è pur sempre una fascia ristretta. Bisognerebbe invece pensare in modi diversi, come fanno la Germania, la Svezia ma anche la Spagna e la Francia per esempio, i diritti sociali pagati per via assicurativa obbligatoria o dalla fiscalità generale secondo cui sulla base della tua fragilità hai diritto a una quota di servizi.

C’è un legame stretto tra povertà e frammentazione dei servizi, come si legge anche nel documento di lavoro della commissione europea (26 febbraio 2016) sulla situazione italiana. Emerge che più di un quarto degli italiani è ancora a rischio di povertà o esclusione sociale e che tale aumento è stato considerevole per i gruppi vulnerabili (quali donne, bambini, minoranze e immigrati), con notevoli disparità fra le regioni. Il finanziamento dei servizi sociali è frammentato ed è stato ridotto spesso senza un chiaro quadro strategico. Come si può sopperire a queste mancanze strutturali?

La povertà è aumentata molto tra i minori e le famiglie con minori; ciò è legato al fatto che non ci sono trasferimenti di reddito sensati e universalistici per le famiglie con figli: l’assegno per il nucleo famigliare, quello per il terzo figlio se sono tutti e tre minori, adesso il bonus bebè ma sono tutti frammenti. Nelle famiglie più numerose e a reddito modesto è molto più difficile per una donna stare sul mercato del lavoro; magari perché le sue qualifiche sono un po’ più basse e il carico di lavoro è alto quindi spesso – per quanto poco guadagnerebbe e quanto invece le costerebbe trovare soluzioni per i figli – non ne vale la pena.

Nel dicembre 2015, il sito economico «inGenere» ha pubblicato dei grafici dedicati all’importanza dei servizi di accoglienza all’infanzia quindi sul mancato investimento, o meglio la differenza su scala nazionale, riguardo il tema degli asili-nido. Francesca Bettio ed Elena Gentili sostengono che l’investimento si recupererebbe nel giro di pochi anni, con ottimi benefici sul lavoro dei genitori e degli insegnanti in più impiegati nelle strutture. Perché allora questa mancanza di lungimiranza?

Accanto alla frammentazione dei trasferimenti di reddito c’è un’assenza quasi totale dei servizi: basso grado di copertura degli asili nido – e il loro costo relativo; i comuni non ce la fanno più con la crisi e il taglio al fondo sociale. Se consideriamo come è composto il territorio nazionale riguardo il numero degli asili-nido, si intuisce subito che c’è un grosso problema nel Mezzogiorno. Scarseggiano proprio nei luoghi – e nei quartieri – che avrebbero maggiore bisogno del «tempo pieno», per gli stimoli di cui beneficerebbero bambini e bambine. Ci sono anche gli studi di Daniela Del Boca che segnalano gli effetti positivi sullo sviluppo cognitivo nei bambini, soprattutto quelli in situazione più svantaggiate. Con un servizio alla prima infanzia alto si ridurrebbero molto le diseguaglianze.

Nella attuale Legge di stabilità viene rinnovato il voucher per il pagamento di asili-nido e baby-sitter, introdotto all’articolo 4 della riforma Fornero (legge 92/2012). È un meccanismo utile o anche questo nasconde qualche insidia?

Ciò che ha fatto Fornero riguardo l’utilizzo del voucher era destinato alle donne lavoratrici a basso reddito che decidessero di tornare prima dal congedo genitoriale, quindi per facilitarne e accelerarne il rientro al lavoro. Molte di noi allora dissero che forse si doveva pagare di più il congedo invece di dare un incentivo. C’è un altro dato che è più un auspicio: l’aumento dei servizi di qualità, facendo in modo che sia il pubblico ad assumersi la responsabilità di una maggiore e inequivocabile qualità invece di pensare a dare un po’ di soldi e arrangiarsi da sé. C’è anche qui una differenza categoriale, nel senso che mentre per le lavoratrici dipendenti c’è il sollecito a rientrare prima dal congedo parentale, per le lavoratrici autonome può forse essere utile. Da questo discorso sono escluse le lavoratrici a tempo determinato, quindi in larga parte le più giovani. In Italia, dove il voucher è pensato in alternativa al congedo, accade quindi il contrario rispetto ad altri paesi europei, penso per esempio alla Germania che dal 2007 ha deciso di pagare bene l’anno di congedo perché ci si possa godere il bambino. In questa Legge di stabilità c’è tuttavia una cosa buona e cioè l’utilizzo del congedo genitoriale frazionato di cui quindi poter usufruire in modo flessibile e non in blocco.

Come prevede che muteranno le forme di welfare in futuro e cosa si augura?

Il fatto che non ci sia molta attenzione per una conciliazione che non sia gestita individualmente, quindi al massimo i voucher o il lavoro agile, non mi fa prevedere qualcosa di buono. Bisognerebbe invece avere una idea più ampia, organizzare i servizi in modo tale da tenere conto che non esiste sempre una donna tuttofare e sempre disponibile. Purtroppo invece non è così. E vedo pure scarsa attenzione verso le situazioni specifiche di svantaggio, che si tratti dell’occupazione femminile nei confronti di donne con bassa istruzione e con carichi famigliari ingenti o che si tratti di soggetti vulnerabili o di minori. Nella legge sulla buona scuola, per esempio, lo svantaggio non viene neppure nominato ed è un punto che mi ha sempre sconvolta perché trovo sia un buco drammatico. Si dovrebbe invece investire proprio qui, non solo per un problema di equità ma – come dicono le mie colleghe di Ingenere – di “capitale umano” e di benessere sociale. Sembra un ragionamento riformista quello di occuparsi di queste cose, perché appaiono piccole o troppo materiali. E invece c’è molta radicalità nell’osservare e interessarsi della vita delle donne e degli uomini.