L’emendamento più strambo alla legge di bilancio è stato presentato dalla Lega, primo firmatario Lorenzo Viviani, che vorrebbe estendere la gestione dei beni culturali agli imprenditori agricoli. Scendendo nei dettagli, coloro che esercitano attività agrituristica in aree di particolare interesse storico – la proposta include anche i titolari di alberghi, residenze d’epoca e aziende vitivinicole – possono avviare ricerche archeologiche sui terreni di loro competenza. L’obiettivo è «promuovere il turismo attraverso la riscoperta della bellezza e la valorizzazione del patrimonio storico-artistico nazionale attualmente inutilizzato». A tale scopo, tra il 2019 e il 2021, è previsto lo stanziamento di un milione e cinquecentomila euro.

Se il codice dei beni culturali già contempla la concessione di scavo a soggetti privati (Dlgs 42/2004, art. 88 e 89) previa approvazione, da parte del Mibac, del progetto scientifico, a destare preoccupazione è la norma che consentirebbe agli ospiti della struttura agrituristica di cimentarsi nelle indagini archeologiche senza fini di lucro. Iniziativa che, come evidenziato dal sottosegretario ai beni culturali Gianluca Vacca del Movimento 5 Stelle, non offre garanzie sulla serietà della ricerca e rivela piuttosto il proposito di creare nuove forme di intrattenimento. Perplessità sono state espresse anche dall’Associazione nazionale archeologi che insiste sul ruolo, sancito dalla Convenzione internazionale per la protezione del patrimonio archeologico sottoscritta a La Valletta nel 1992 e ratificata dall’Italia nel 2015, dei professionisti abilitati allo scavo. Meno rigida la Confederazione italiana archeologi per la quale i proprietari dei terreni possono sostenere le azioni del direttore dello scavo, purché qualificato, traendone a loro volta profitto. In attesa di conoscere l’esito della modifica alla finanziaria richiesta dalla Lega, è d’obbligo una riflessione sull’idea che la sottende.

Se negli ultimi anni, studiosi e addetti ai beni culturali hanno portato all’attenzione dei governi la necessità di un’archeologia pubblica tesa a rafforzare il valore sociale della memoria storica, l’archeologia mainstream sembra invece non voler rinunciare al potere della spettacolarizzazione. Si pensi all’impatto mediatico nonché politico dello scavo della Regio V a Pompei, le cui scoperte vengono annunciate con l’enfasi della perenne straordinarietà. In questo clima, nel quale rientrano anche le strategie di alcuni «super»  musei votati più al marketing che alla trasmissione del sapere, non stupisce che l’archeologia venga usata come mezzo di attrazione per le masse e la professione dell’archeologo sia ancora scambiata da taluni per un hobby a buon mercato. Eppure lo spettro degli sterri ottocenteschi volti a riportare alla luce tesori sembravano scongiurati per sempre dall’affermarsi, nella seconda metà del XX secolo, dell’archeologia quale disciplina rigorosa, non barattabile con l’ingenuità (o, peggio, l’avidità) degli amatori.