Si chiama «Opinioni sul rafforzamento della protezione dei diritti e degli interessi dei lavoratori nelle nuove attività di trasporto» ed è il nuovo documento pubblicato il 30 novembre da otto organi ministeriali guidati dal ministero dei Trasporti. Dopo l’emissione a luglio di linee guida per tutelare le professioni nel food delivery, è la volta del fiorente settore del ride-hailing e del car-sharing, che conta 248 società operative nel paese e che nel 2020 ha raggiunto, secondo un rapporto della Internet Society of China, i 249,91 miliardi di yuan (39,22 miliardi di dollari).

LE SOCIETÀ COINVOLTE dovranno garantire una maggiore limpidità sugli introiti e non potranno pretendere una percentuale per ogni corsa oltre una certa somma, secondo misure che rientrano nelle istanze di Pechino di frenare una «espansione disordinata del capitale» e spingere le Big Tech a migliorare i loro «meccanismi di distribuzione del reddito».

Come altri settori dell’economia delle piattaforme, il ride-hailing si basa su un modello di business che viene sponsorizzato come garante di libertà e flessibilità a beneficio dei lavoratori. Ma le autorità ora si aspettano maggiori tutele per i 3,6 milioni di autisti attivi nel paese: le piattaforme saranno tenute a chiarire i termini di impiego e fornire loro l’assicurazione in caso di infortuni.

MA UN CAMBIAMENTO NETTO del modello di occupazione potrebbe condurre a «ripercussioni difficili da prevedere», ha avvertito Didi Chuxing, la società per anni leader nel settore.

Nata nel 2015 dalla fusione di Didi Dache e Kuaidi Dache, rispettivamente dei colossi Tencent e Alibaba, il colosso tecnologico è stato coinvolto nell’implacabile giro di vite governativo, in particolare dopo la quotazione iniziale da record di 4,4 miliardi dollari a Wall Street dello scorso giugno. E la motivazione risiede, ancora una volta, nello scorretto utilizzo dei dati. Nelle ore successive alla Ipo, infatti, la Cyberspace Administration of China si era affrettata a dichiarare di aver scovato «gravi violazioni della legge» nella raccolta e nell’uso delle informazioni personali dei clienti, bloccando il funzionamento dell’app e rimuovendo dagli store online 25 altre applicazioni-partner, compresa quella per il reclutamento di nuovi autisti.

PER IL TIMORE di una imminente nazionalizzazione dell’azienda e un conseguente cambio del direttivo, la co-fondatrice e presidentessa di Didi a settembre pare fosse stata in procinto di dimettersi – lo aveva riportato Reuters, ma la società lo aveva subito smentito. Quello che è certo è che in poche settimane il colosso cinese ha perso 4 milioni di utenti e che, dopo essere uscito di scena, l’intero settore ha beneficiato di investimenti da parte di altre Big Tech del paese, come Alibaba: di recente ha dichiarato di voler investire 40 milioni di yuan (6,27 milioni di dollari) nel servizio di ride-hailing online Letzgo, della società statale Dazhong Transportation, e a inizio novembre la sua affiliata fintech Ant Group avrebbe finanziato la startup cinese di bike-sharing Hello Inc.
Ma ciò che emerge dalla vicenda è il successo delle azioni contenitive e regolamentatrici del partito, come dimostra il recente annuncio di Didi dell’intenzione di ritirarsi dalla New York Stock Exchange (Nyse), a soli cinque mesi dal suo debutto, e di voler perseguire una quotazione a Hong Kong.

LA SOCIETÀ LO HA COMUNICATO lo scorso venerdì sul suo profilo Weibo e la notizia, per quanto sintetica e priva di dettagli, ha scatenato forti reazioni: da una parte, un ulteriore calo delle azioni, che nel complesso hanno subito una svalutazione del 57% dal loro prezzo di Ipo; dall’altra, quella di molti utenti cinesi che hanno accusato di cattiva condotta il colosso tecnologico. «La mia speranza per la vostra azienda è che diventi un’impresa nazionale cinese e non qualcosa di inutile», recita uno, che ricorda poi quanto sia importante che le Big Tech si limitino a proteggere gli interessi del paese e la privacy dei consumatori.