Per i poeti del ventesimo secolo, specialmente per quelli che hanno vissuto la seconda guerra mondiale e hanno contemplato le capitali in macerie, la città è spesso uno scenario di distruzione. Ma è proprio attraverso le rovine che può intravedersi il destino di un individuo o di un’intera generazione davanti alla Storia. Conviene osservare sotto questa luce anche uno degli emblemi più vividi della poesia di Giorgio Caproni (e in genere della lirica del secondo Novecento in Italia): la statua settecentesca di Enea, emersa quasi intatta fra i crolli di piazza Bandiera, a Genova, devastata dai bombardamenti. «Enea giunse in piazza Fossatello, a Genova, nel giugno del 1844. Aveva prima sostato a lungo in piazza Soziglia e di là poi in piazza Lavagna». Così annota Caproni in uno scritto sul Monumento ad Enea, tra i primi di una serie inaugurata da un articolo del 7 ottobre 1948 pubblicato in «L’Italia Socialista». In «quella città Enea non l’avevo mai visto» prosegue Caproni; non «avevo mai visto il piccolo monumento a Enea sito in piazza Bandiera, e devo dire che l’altro giorno, quando la prima volta lo scorsi, una meraviglia immensa e una grandissima curiosità subito suscitò nel mio petto quella minuta statua cariata, la quale certo insieme al vecchio Anchise porta sulle spalle il peso di almeno tre secoli». È noto, ed è stato proprio Caproni a ribadirlo, quanto debbano a quella prima, incongrua apparizione i versi di Il passaggio d’Enea (usciti in volume da Vallecchi nel 1956). Erano meno avvertibili finora la persistenza e il rilievo dell’immagine di Enea attraverso la scrittura e il pensiero del poeta, dal ’48 fino alla sua morte (e oltre, date le riapparizioni virgiliane anche in scritti e interviste postumi).

«Il passaggio d’Enea»
Dà ora conto dell’importanza di questa figura-tema il volume Giorgio Caproni, Il mio Enea, a cura di Filomena Giannotti (prefazione di Alessandro Fo, postfazione di Maurizio Bettini, Garzanti «i Grandi Libri», pp. 255, e 20,00). La curatrice, studiosa di filologia classica all’Università di Siena, ha raccolto circa quaranta ‘voci’ che compongono la peculiare antologia virgiliana di Caproni. La prima parte del volume include: sette articoli usciti tra il 1948 e il 1961 e direttamente dedicati al monumento di piazza Bandiera; il testo del poemetto Il passaggio d’Enea; il lungo scritto Genova, del ’79. La seconda parte allinea trentuno «riferimenti occasionali» più brevi ed eterogenei: appunti, estratti in prosa e in versi, dichiarazioni, tessere spesso rare di un esteso ‘mosaico-Enea’. Circa una metà del libro è costituita poi dall’introduzione e dagli apparati, necessari per illustrare il progetto alla base del volume e garantirne la tenuta; questi comprendono un’ampia annotazione, particolarmente rilevante nel caso di Il passaggio d’Enea, del quale Giannotti fornisce un vero e proprio commento; la cronologia dei testi e un dossier iconografico (sul monumento genovese e su un’analoga raffigurazione nel parco di Schönbrunn presso Vienna). I sette articoli della prima parte sono tra loro molto simili; ampie porzioni di testo si trasmettono pressoché identiche dall’uno all’altro, sia perché nate forse dalla stessa matrice sia perché l’autore tende comunque al riuso di formule e argomenti anche a distanza di tempo. Non è un dato che sorprende: chi ha familiarità con la prosa pratica (e in certi casi anche con quella d’invenzione) dei poeti, sa quanto sia frequente l’esercizio di una sorta di bricolage verbale, anche e proprio in quegli autori che non si concederebbero mai simili ripetizioni in poesia. Cosicché il lettore di Il mio Enea deve essere pronto a tollerare non poche ridondanze. Ma è una prova utile a riconoscere quanto Caproni vada oltre la pura ripetizione: ogni volta qualcosa si aggiunge, uno spazio di ulteriore riflessione si apre, la carica simbolica dell’Enea genovese aumenta.

Nerval mediato da Eliot
È solo a partire da un articolo del 1960, ad esempio, che la figura del protagonista virgiliano comincia a essere paragonata «al Principe d’Aquitania “dalle torri abolite”: al Desdichado di De Nerval». È un’allusione, o forse la citazione di una citazione, se la memoria di Nerval è mediata come sembra da Eliot The Waste Land, V. «What the Thunder Said»: «Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie» (lo aveva notato Adele Dei, e a Eliot fanno qui giustamente riferimento, insieme a Giannotti, sia Fo sia Bettini nei saggi che incorniciano il volume). Del resto, per situare lo sguardo del poeta tra le rovine di una città irreale non c’è esempio migliore del «paese guasto» eliotiano – in questo sintagma dantesco Caproni trova la formula ideale per rendere in italiano il titolo del poemetto. Eliot è un’autorità attraverso cui la generazione poetica di Caproni (e di Sereni: penso specialmente ad Autostrada della Cisa) si richiama esplicitamente per mettere in forma il rapporto fra esperienza e mito, presente e tradizione. Enea è figura esemplare di questa difficile mediazione fra una tradizione esausta (il vecchio Anchise) e un futuro esitante (il fragile Ascanio).
Giannotti illustra bene i nuclei ricorrenti e le variazioni introdotte; è su quelle che si misura meglio la funzione-Enea, il suo passaggio appunto, attraverso la storia umana e letteraria di Caproni. Si capisce così quanto l’immagine che subito si delinea e che in seguito si precisa non abbia niente a che fare con la retorica della romanità in cui il fascismo aveva arruolato anche l’epos virgiliano. Al contrario, spiega Giannotti, l’Enea che queste pagine ci consegnano «è vivo e concreto, non scolastico e libresco, anzi antieroico e antiretorico. E, in quanto nato in un preciso e drammatico momento storico (…), fortemente simbolico: sospeso tra passato e futuro, privo di una guida, in uno stato di confusione ‘generazionale’, esule in cerca di un approdo e, soprattutto, terribilmente solo e terribilmente attuale. L’identificazione non poteva che farsi esplicita (“Enea sono io”) e totale (“siamo tutti”)». Quella di Caproni nei confronti di Enea è quasi un’appropriazione (ha una forza specifica il possessivo ‘mio’ nel titolo del volume), non solo individuale o privata ma appunto generazionale. La medesima sorte – confessa a Renato Minore in un’intervista del 1983 per Il Messaggero – era toccata a tutta una «bianca generazione (…) nel senso appunto di inesistente perché sopraffatta dalla dittatura e poi dal conflitto». Ma proprio quella generazione, intesa però in senso letterario, ha sentito l’esigenza e ha avuto la forza di rinnovare il legame tra l’avvertimento del reale e la sua rifigurazione in chiave mitica, quello stesso legame che si andava invece sfilacciando in poeti più anziani come Montale, dopo le ultime, grandi allegorie della Bufera.
L’Enea di Caproni è il punto di fuga verso cui convergono la linea della Storia e quella del mito, oltrepassando nel tempo e nello spazio la dimensione originaria del personaggio virgiliano. Questi può così riapparire, inatteso, in una piazza di Genova, suscitando la meraviglia dell’osservatore che ne scorge per la prima volta l’effigie, tra i palazzi sventrati e i cumuli di detriti. È possibile che il potere straniante dell’incongruenza riesca a fare ancora di Enea, padre e figlio che passa attraverso le macerie di una città dall’altra parte del Mediterraneo, l’emblema di un tempo come il nostro. «L’importante – Enea o no – » scrive Caproni in un brano datato 1951, ma non inattuale, «è che il ritratto dell’uomo d’oggi ci sia, ci sia la fiducia, la dignità di quest’uomo non più Principe ma nemmeno gorilla o petalo di rosa».