Venezuela e Colombia di nuovo ai ferri corti. Il casus belli questa volta nasce dall’incontro tra Henrique Capriles Radonski, leader della destra venezuelana, e il presidente colombiano Juan Manuel Santos, che lo ha accolto in pompa magna a Bogotà. Un incontro celebrato dai grandi media ma contestato, in loco e in Venezuela, dalla sinistra e dai movimenti sociali. Nella capitale colombiana, i manifestanti hanno accolto Capriles al grido di «assassino e golpista» e hanno innalzato cartelli con la scritta: «persona non grata». 

Subito dopo le presidenziali del 14 aprile, perse di misura con il candidato socialista Nicolas Maduro, il leader della Mesa de la unidad democratica (Mud) non ha riconosciuto i risultati e ha chiamato i suoi alla rivolta. Nelle violenze seguite (incendi, saccheggi e 61 feriti), sono morti 11 chavisti, uno dei quali di origine colombiana. Santos ha preferito incontrare Capriles e disertare la cerimonia di riparazione imposta dalla Corte costituzionale allo Stato colombiano nei riguardi della comunità di San José de Apartado: una comunità pacifista che si trova nel dipartimento di Antioquia e che, per aver dichiarato il proprio territorio «neutrale di fronte al conflitto», nel febbraio 2005 è stata vittima di un massacro compiuto da paramilitari con la complicità dell’esercito. «Alcune persone della comunità sono strumentalizzate dai terroristi Farc e dagli stranieri», ha scritto su Twitter l’ex presidente colombiano Alvaro Uribe, in carica dal 2002 al 2010. Grande sponsor di Capriles, Uribe è più volte intervenuto a gamba tesa durante e dopo la campagna elettorale in Venezuela, e ha espresso profonda stizza per l’andamento delle trattative tra il governo Santos e la guerriglia marxista Farc in corso all’Avana con la mediazione del Venezuela. Una mediazione fortemente voluta dal presidente venezuelano Hugo Chavez, scomparso il 5 marzo.

Per il suo ruolo di promotore di pace nel cinquantennale conflitto colombiano, Chavez è stato denunciato da Uribe all’Organizzazione degli stati americani (Osa) come «complice dei terroristi» e il Venezuela ha interrotto allora le relazioni. Con l’arrivo di Santos, ministro della Difesa nel precedente governo e non certo uomo di sinistra, le relazioni fra i due governi si sono comunque normalizzate. Sull’altare della realpolitik sono stati immolati allora due militanti colombiani, il giornalista Joaquin Becerra, estradato da Caracas a Bogotà e Julian Conrado («il cantante delle Farc»), ancora in carcere in Venezuela. Sul tavolo di Maduro – che ha ribadito la volontà di proseguire sulla linea del suo precedessore – c’è la lettera di Conrado in cui chiede di essere liberato, appoggiato da numerose organizzazioni sociali. Adesso, però, il governo bolivariano, per bocca del ministro degli Esteri Elias Jaua ha fatto sapere che sta riconsiderando la sua partecipazione al dialogo di pace in corso a Cuba, e ha richiamato il proprio ambasciatore all’Osa delegato per questo all’Avana. Santos – nuovamente candidato alle elezioni del 2014 – ha dichiarato che cercherà di risolvere il conflitto diplomatico «lontano dai riflettori». Capriles ha cantato vittoria.

Intervistato dagli Usa da Jaime Bayly, di Mega Tv ha chiesto al suo amico Miguel Insulza, dell’Osa, un «ruolo più attivo» nelle vicende del Venezuela, ma ha aggiunto che non andrà a incontrare il presidente Usa Barack Obama: per non «sganciare un’altra bombetta sul governo», per quanto considerato illegittimo. Lui – ha precisato – è un fautore «dell’integrazione con l’America latina». Ovviamente quella modello «cortile di casa» degli Stati uniti: che sta nei disegni politico-commerciali ribaditi da Obama nel suo recente viaggio in Centroamerica, e poi dal vice Joe Biden. Un modello sostenuto da una poderosa campagna di intossicazione e disinformazione internazionale, ha denunciato una petizione inviata al New York Times e firmata da intellettuali come Noam Chomsky, Oliver Stone, Michael Moore… A dispetto delle cifre e dei dati, forniti dagli organismi internazionali come la Fao – che porta il Venezuela ad esempio per le politiche pubbliche rivolte alla sicurezza alimentare e nutritiva di chi ne ha più bisogno -, si mostra un paese in cui c’è penuria di cibo. Si trasforma l’acceso dibattito interno al chavismo – normalmente segno di buona salute politica – in presunta lotta fratricida fra l’uno o l’altro dirigente o in chiacchiere da portineria. «Sta succedendo come in Cile. Quando Allende iniziò a espropriare la proprietà privata e a trasferirla al potere popolare cominciarono a mancare carne, olio e carta igienica», ha scritto Raul Bracho sul sito di Aporrea denunciando il sabotaggio dell’opposizione. «Non eravamo preparati alla crescita che il paese ha avuto negli ultimi anni», ha dichiarato Gerson Hernández a nome di un gruppo di «imprenditori socialisti» che appoggiano Maduro, esibendo le 385.000 unità abitative costruite negli ultimi 2 anni. E mentre l’opposizione cerca sponsor a livello internazionale, nel chavismo si discute di «una nuova Nep», una nuova politica economica che richiama le passioni leniniste e bolsceviche del ’21.

L’autonomo Roland Denis, ex ministro delle Finanze, tuona contro «il capitalismo di stato modello Giordani (l’attuale ministro dell’Economia, ndr)» e vorrebbe andare più in fretta verso il futuro stato comunale. Thierry Deronne, analista dei media e comunicatore sociale dice al manifesto: «La realtà è molto diversa da quella creata dai mezzi di informazione e anche da alcuni siti. La partita si gioca nel lavoro concreto: nel governo di strada inaugurato da Maduro, nei risultati ottenuti in tema di sicurezza e di sovranità alimentare, nel lavoro diplomatico per nuovi rapporti solidali».