Fine corsa in Lombardia. Vista da qui, la batosta nella tana del lupo travestito da moderato di Arcore significa una cosa precisa: questa mazzata per il Pd è il segno di un declino a livello nazionale. A parte il leader che ormai le perde tutte e i suoi ventriloqui istruiti per farneticare di macchie di leopardo, tutti i modesti rappresentanti lombardi del Pd a trazione renziana sanno che perdere Como, Monza, Lodi e Sesto San Giovanni non è un incidente di percorso (il centrodestra ha vinto nei 18 comuni più importanti superiori ai 15 mila abitanti, il centrosinistra in 10).

Pochi, invece, si soffermano a ragionare anche sul fatto che più della metà dei cittadini si sono disinteressati all’elezione del proprio sindaco: l’affluenza si è fermata al 44%, bassissima in Lombardia. C’è poi un altro fattore non secondario. La sconfitta rende quasi impossibile anche una rimonta in vista delle elezioni regionali che si terranno il prossimo anno, e il governatore leghista Roberto Maroni è in un brodo di giuggiole: «Questo è il modello del centrodestra unito che vince».

Qualcuno ne prende atto? Sì, ma senza esagerare. Va male, anzi malissimo, ma i «vertici» hanno deciso di riflettere e tirare a campare. Ognuno restando al suo posto. Per Alessandro Alfieri, segretario regionale del Pd, questo «non è un cappotto» ma una sconfitta, «dobbiamo ammetterlo, ma abbiamo fatto un ottimo lavoro in questi anni, ora voltiamo pagina, ce lo chiedono i cittadini».

Il sindaco di Milano Beppe Sala, l’unico che suo malgrado può ascrivere la sua risicata vittoria del 2016 a un progetto renziano ancora rimasto in piedi, indossa la faccia di chi non può dire quello che pensa. E si aggrappa a un generico concetto di «unità», tanto per non urtare la suscettibilità della volpe di Rignano: «Gli elettori premiano chi sta unito e il centrosinistra nell’ultimo anno non ha dato un bellissimo spettacolo. Non è colpa di uno, è colpa di tutti, però su questo bisognerà riflettere, perché mancano mesi alle politiche e bisogna lavorare».

Vista da vicino, la sconfitta è ancora più bruciante. Cominciamo da Sesto San Giovanni (81.490 abitanti, affluenza 45,61%), perché qui finisce una storia: per la prima volta dopo 72 anni l’ex Stalingrado d’Italia sarà amministrata dal centrodestra. L’insulto più fastidioso dal solito Riccardo De Corato: «La vera Liberazione di Sesto è il 25 giugno, non il 25 aprile». Dito nella piaga. Ad evitare la catastrofe non sono state sufficienti le comparsate di Giuliano Pisapia e Walter Veltroni. Il nuovo sindaco è Roberto Di Stefano (58,63%), lascia la poltrona Monica Chittò (41,37%, sostenuta dalla cosiddetta sinistra orlandiana del Pd e dalle frattaglie della sinistra-sinistra). Al 70% nel 2012.

Como (84.687 abitanti, affluenza 35,82%), dopo la parentesi Pd di Mario Lucini, torna in mano al centrodestra: Mario Landriscina con il 52,68% ha battuto Maurizio Traglio fermo al 47,32%. A Lodi (44.769 abitanti, affluenza 51,35%) la brutta fine del centrosinistra era nelle cose: il Comune a sud di Milano l’estate scorsa era stato commissariato in seguito all’arresto per turbativa d’asta dell’allora sindaco Pd Simone Uggetti. Lodi, che è «feudo» del vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, negli ultimi 20 anni è sempre stata in mano al centrosinistra. Oggi sindaca è la leghista Sara Casanova con 56,90% contro il 43,10% di Carlo Gendarini. A Monza (122.367 abitanti, affluenza 45,25%), dopo un primo turno terminato in sostanziale parità, l’ha spuntata inaspettatamente il centrodestra con Dario Allevi al 51,33% contro il sindaco uscente Roberto Scanagatti, fermo al 48,67%.