Che tra i 18 candidati alla presidenza del Perù la battaglia fosse incertissima era noto a tutti. In pochi, però, avrebbero scommesso che al primo turno delle elezioni di domenica il più votato, con circa il 16% delle preferenze, sarebbe stato il candidato ritenuto di estrema sinistra: il maestro e leader sindacale Pedro Castillo.

Quanto al suo avversario al ballottaggio del 6 giugno, non si sa ancora chi la spunterà tra tre candidati di destra: Keiko Fujimori, Hernando de Soto e Rafael López. «Il popolo si identifica con chi viene dal popolo», ha dichiarato Castillo.

Su questa sua provenienza ha centrato tutta la sua campagna elettorale condotta, malgrado la pandemia, alla maniera tradizionale, per le strade e le piazze, con l’immancabile cappello di paglia proprio dei contadini delle Ande e un’enorme matita in mano, simbolo dell’educazione – uno dei punti centrali del suo programma – e del suo partito, Perú libre, autodefinitosi come «espressione dei popoli emarginati e delle lotte anti-neoliberiste contro la dittatura del capitale».

Fino a poco fa accreditato di un misero 3,5% di preferenze, il 51enne Castillo ha accumulato rapidamente consensi nel mondo rurale andino, fino a raddoppiarli negli ultimi 10 giorni, non senza togliere voti anche all’altra candidata di sinistra, Verónika Mendoza, rimasta sotto il 10%.

Contrario all’aborto, al matrimonio omosessuale e all’inclusione nell’insegnamento di una prospettiva di genere, il candidato di Perú libre ha invece espresso proposte assai avanzate su altri piani: dalla nazionalizzazione delle risorse strategiche del paese alla rinegoziazione di tutti i contratti sottoscritti con le transnazionali, dall’eliminazione del sistema di fondi pensione privati all’aumento del bilancio per l’educazione dal 3,5 al 10% del Pil, fino all’elezione popolare dei giudici del Tribunale costituzionale.

E soprattutto si è pronunciato con forza a favore di un’Assemblea costituente per superare la Costituzione fujimorista del 1993 che, ha detto, «ha soppresso i diritti e saccheggiato il paese», ed elaborarne una nuova «che abbia colore, odore e sapore di popolo».

Non è stata da meno la sua candidata a vice Diana Boluarte, che ha puntato il dito contro i ricchi, accusandoli di essersi ulteriormente arricchiti durante la pandemia, e contro le transnazionali, colpevoli di portarsi via il 70% dei profitti.