Da moltissimi anni, Vinicio Capossela aveva cominciato il suo percorso d’avvicinamento alle «canzoni della cupa», brani della tradizione popolare e un po’ magica del Sud d’Italia che avevano ammaliato alla loro «scoperta» antropologi, musicologi, psichiatri, cineasti e fotografi come Ernesto De Martino, Diego Carpitella, Alberto M. Cirese, Giovanni Jervis, Amalia Signorelli, Michele Gandin, Luigi Di Gianni e Franco Pinna. Dunque, tracce pubbliche se ne ebbero solo nel 2008, allorquando Capossela dichiarò alla stampa che stava scrivendo: «un lavoro che si chiama Canzoni della Cupa, che per diversi motivi non ho pubblicato».

Aggiungendovi una giustificazione a quel tempo per certi versi pertinente: «Bob Dylan della musica tradizionale diceva che non ha nulla di rassicurante ed è fatta di spine, di creature notturne, di sangue, di cose misteriose. La penso allo stesso modo e scelsi quel titolo pensando alla parte del Meridione dove il sole non batte quasi mai: spesso è lì che si verificano le apparizioni più misteriose, frutto anche dell’immaginario popolare».

5 maggio 2016, Albergo Diurno Venezia, dimora comunale milanese affidata al Fai è il luogo scelto da Capossela per far partire la nuova avventura. E ora, rimandate a inizio anno, per la risoluzione di un problema di salute, discese dal libro e film Il paese dei coppoloni e aperte dal singolo e video Il Pumminale, Le canzoni della cupa (WarnerMusic) escono oggi in doppio album. Prodotto dalla casa discografica del cantante La Cùpa, il lavoro si presenta spaccato in due: la prima parte raccoglie la «Polvere» che si è stratificata sul patrimonio testuale e sonoro di questi canti, mentre la seconda parte dei brani è avvolta nell’«Ombra», più demoniaca, solforosa come sarà il tour teatrale invernale, specchio rovesciato delle arene estive del giro programmato in partenza da Roma, il 28 giugno.

Qui, la sprezzatura originale del cantante, forte della sua fisicità brechtiana, post-surrealista, cantautorale influenzata dal tex-mex, dai mariachi, non teme la radicalità del dettato antropologico e culturale postogli di fronte dalla sua ricerca né il confronto con le riscoperte di quel repertorio degli anni ’70. E difatti, il suo legame da spedizioniere contemporaneo non è con i «canzonieri» regionali o le nuove «compagnie», che contaminarono il repertorio con il jazz e il blues e la forma canzone proveniente dai confini meno battuti dell’Europa e del Nord Africa, ma direttamente con la figura solitaria di Matteo Salvatore, chiamato da Capossela «straordinario cantore dello sfruttamento della civiltà contadina», con cui peraltro divise il palco poco prima della sua morte.

Insomma, è un salto all’indietro di un decennio e oltre, sono le figure di Giovanna Marini e Antonio Infantino, tra gli ospiti dell’album, mediate da Carlo Levi, Pasolini più adatto sembra relegato in un cantuccio pronto ad esplodere: ad interessare Capossela è il meridione dei 60 raggiunto dal boom e schiantato dai futuri «gennarielli» ormai diventati adulti, e soprattutto lontani dai riti genitoriali e dalla tradizione conviviale dei paesi d’origine.

È la stagionatura delle canzoni a sublimare una terra diventata clandestina e oscura, che ancora si germina ma che entra direttamente in una filiera produttiva diversa da quella immaginata solo fino a pochi decenni fa. E Capossela, cantore di crisi – come dimenticare l’operazione «rebetiko» – sa maneggiare materiali altamente infiammabili senza mai scottarsi per come sa legare, storia degli strumenti, oralità, cinema, fotografia, letteratura, sociologia della terra e relazioni amicali.