Una missione impossibile, ma affascinante: setacciare le macerie dell’Europa, schivare i bombardamenti, annusare le piste del furto d’arte e pedinare i ladri nazisti: è questo il compito che George Clooney affida a alcuni esperti (tra cui, Cate Blanchett, Matt Damon, Bill Murray) nel suo Monuments Men, film in uscita a gennaio 2014. La trama è tratta da un libro di Robert Edsel che ricostruì una storia vera: durante la seconda guerra mondiale, un plotone dell’esercito americano, composto da critici, studiosi, direttori di musei, venne arruolato da Roosevelt per contrastare il saccheggio di Hitler e cercare di salvare i capolavori di pittori, scultori e musicisti, rifugiandoli negli Stati Uniti.
D’altronde, mentre le fiamme divoravano il Vecchio Continente, si tentava di salvare il possibile con tutti i mezzi necessari: la Gioconda di Leonardo, per esempio, gironzolava da un castello all’altro e, come una fuggiasca, cambiava nascondiglio continuamente.
Nonostante la buona volontà di molti «giusti», i nazisti fecero razzia di patrimoni pubblici e privati, depredarono le famiglie ebree, confiscarono intere collezioni, distruggendo opere ritenute non «degnamente ariane» e dando vita, d’altro canto, a una caccia al tesoro senza precedenti per aderire all’ideale supremo del Führer: far sorgere a Linz un museo intitolato a se medesimo, artista respinto a 18 anni dall’Accademia. Un museo che riportasse in patria – tramite saccheggi – i capolavori, tedeschi in primis, «dispersi» in altre città e migliaia di altri oggetti di valore, di ogni epoca e paese. Lo stesso Hermann Goering, come altri gerarchi, accumulava tesori affidando allo storico dell’arte Bruno Lohse, la confisca dei pezzi migliori. Lohse non lavorò male, incamerando beni anche a proprio vantaggio: in una cassaforte di una banca di Zurigo vennero trovati quattordici dipinti, firmati da Dürer, Pissarro, Monet, Renoir, Sisley, Kokoschka e Van Kessel.

Il ritrovamento in Baviera

La notizia data dal settimanale tedesco Focus delle millecinquecento opere confiscate dai nazisti o comprate per due soldi ricattando gli ebrei proprietari, ritenute perdute – che comprendono maestri come Picasso, Renoir, Matisse, Nolde, Marc – e invece ritrovate in una casa-magazzino a Monaco di Baviera, risveglia e dà una scossa alla memoria, narrando tra le righe la storia di un’Europa che viene percorsa per decenni (dagli anni Quaranta in poi) da esperti segugi alla ricerca dei capolavori svaniti. Insieme ad ogni quadro che riappare, torna anche una genealogia famigliare; ogni dipinto, scultura, oggetto custodisce in sé un mondo interrotto: quello dei molti ebrei depredati (confische statali, comunali etc), costretti alla fuga, deportati.
Fra i quadri venuti alla luce, dopo due anni di indagini, dalla polvere e dall’ombra dell’abitazione dell’anziano Cornelius Gurlitt, figlio del gallerista Hildebrand, gli storici che stanno lavorando alla loro catalogazione hanno fatto sapere che di circa duecento era già stata regolarmente sporta denuncia di scomparsa, mentre trecento sarebbero opere che furono esposte nella celebre mostra di Monaco sull’Arte degenerata del 1937. Era quella che presentava al pubblico «la pseudo arte moderna, la beffa ebreo-bolscevica»: seicentonovanta masterpiece accompagnati da scritte dispregiative, sequestrati a musei e privati, molti destinati al rogo. Sull’onda dello «scandalo» e dell’infamia che le ricopriva, quelle opere attirarono migliaia di visitatori (molti di più rispetto alla ufficialissima Grande Rassegna d’Arte Germanica, che faceva da contraltare ai «degenerati»), tanto che non ci fu un giorno senza fila. La mostra venne prorogata, poi viaggiò, arrivando a toccare Vienna nel 1941.
«Chiunque volesse giustificare i disegni e le sculture dei nostri dadaisti, cubisti, futuristi o di quei malati espressionisti, sostenendo lo stile primitivista, non capisce che il compito dell’arte non è quello di richiamare segni di degenerazione, ma quello di trasmettere benessere e bellezza»: a dispetto delle parole del Führer e delle colpe culturali e devianti che attribuiva al «regime giudaico», quell’esposizione ebbe un successo clamoroso.

Il Matisse di Rosenberg

Stipato in mezzo agli altri, ci sarebbe anche un Matisse appartenuto a Paul Rosenberg, gallerista, mercante e collezionista che sostenne Picasso, Léger, Braque, Matisse fino alla mattina in cui fu costretto alla fuga in America, privato di gran parte della sua collezione. Su di lui, ha scritto un libro la nipote, Anne Sinclair, giornalista televisiva e moglie di Dominique Strauss-Kahn, infine, erede in lista per una possibile restituzione dell’opera ritrovata.
21, Rue La Boétie
(uscito per Skira nel 2012) raccontava la passione di suo nonno e gli anni della galleria, dal 1910 al 1940, appunto, in rue La Boétie a Parigi: Rosenberg metteva sotto contratto artisti promettenti come Picasso e Braque e organizzava loro mostre. Quando sbarcò a New York, aprì una nuova galleria e iniettò massicce dosi di arte moderna oltreoceano.
Diversa la figura invece del gallerista nazionalsocialista, padre di quel Cornelius che è stato intercettato in un controllo doganale mentre trasportava, in treno, contanti in Svizzera: senza reddito, per vivere ogni tanto faceva uscire dal suo deposito un quadro e lo vendeva seguendo vie oscure. Hildebrand, nato in una famiglia di musicisti e artisti, divenne direttore di museo a Zwickau e non disprezzò per niente gli Espressionisti: nel 1925 organizzò una mostra su Max Pechstein, continuando poi la sua attività con Kate Kollwitz, Erich Heckel e Emil Nolde. Nel 1930 si trasferì ad Amburgo per iniziare una carriera come mercante d’arte, ma la svolta della sua vita arrivò col nazismo. Entrò nella commissione dell’Arte Degenerata con l’incarico di commercializzare le opere confiscate. Nel 1945, interrogato dopo la cattura, dichiarò che la sua collezione (mille e cinquecento opere) era andata distrutta sotto i bombardamenti. Arrestato e poi liberato (aveva una nonna ebrea e fu trattato da «vittima») lavorò nel suo campo fino alla morte, avvenuta nel 1956.
Insomma, la storia di Monaco non è da sottovalutare Ma non è l’unica. Fabio Isman, giornalista e autore del libro I predatori dell’arte perduta (che però inseguiva le razzie dei reperti archeologici, edito da Skira), ricorda che al Musée d’Orsay di Parigi ci sono diversi quadri esposti con un bollino speciale che sta a significare la provenienza dubbia e la loro «disponibilità» alla restituzione, qualora reclamati dal legittimo proprietario. E richiama alla memoria il «caso Barberini»: una serie di quadri prestati dal museo italiano a Berlino, vennero dichiarati dispersi in guerra. Poi, però, qualcuno riapparve in mani di collezionisti privati.
Daniele Liberanome, critico e esperto del settore autentiche, ha qualche perplessità di fronte alla mole di quadri ritrovati e dice che la storia di Monaco presenta alcuni punti oscuri. «E’ soprattutto il numero che fa sobbalzare,  perché da decenni c’è chi si occupa di queste questioni – e non sono pochi – ricercando opere trafugate alle famiglie ebraiche. Strano che fosse sfuggito un patrimonio così ingente. Chi le ricerca lo fa sostanzialmente per avviare una restituzione agli eredi, ma anche per venderle e metterle all’asta. In questo campo, si fanno affari molto vantaggiosi. Il ritrovamento non cambierà certo la storia dell’arte (di maestri come Picasso e Matisse si sa tutto), ma è una manna per le attribuzioni e autentiche”.