La sapevo lunga sul crimine nelle grandi città e sulle esecuzioni di stato.

Ma Filadelfia, Chicago, San Francisco – e tutto cio’ che si estendeva tra di loro – per me erano solo nomi sulla mappa.

 

Pensai che avrei potuto andarmene, e attraversare il paese come reporter freelance.

 

Mark Twain, uno dei mie eroi, si era impegnato a conoscere le persone e i luoghi che avevano reso grande il suo paese navigando il Mississippi.

Era ora che anch’io guadagnassi un po’ d’esperienza di prima mano dell’America.

Cominciai facendo l’autostop sui camion, o saltando a bordo di treni merci che andavano nella mia direzione. La macchina da scrivere legata allo zaino con una corda.

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Trascorrevo la maggior parte del tempo con persone che non avevano veramente una casa.

Ovunque andavo, i poveri cercavano di fare del loro meglio in una situazione orribile.

 

Anche quelli con una casa e un lavoro fisso vivevano in uno stato di miseria quasi impossibile da comprendere considerando il livello di richezza che abbiamo in America oggi.

 

Era il punto più basso della Depressione.

Quando non si parlava ancora di elettrificazione rurale, assistenza agraria, o di Social Security.

 

Scrissi articoli e disegnai vignette su tanti tipi di Americani diversi:

minatori di carbone in West Virginia, cowboy in Oklahoma,

pescatori di granchi in Louisiana, raccoglitori di cotone in Georgia,

produttori di latte in Illinois, ferrovieri in Florida.

 

Le mie cose erano pubblicate con regolarita’.

Un bell’assegno intestato a ‘Samuel Fuller, Freelance’ mi aspettava puntualmente presso la redazione locale del giornale, nelle citta’ lungo il mio tragitto, Ero connesso al mio paese come non lo ero mai stato prima.

Giovani, se volete capire l’America, alzate il culo e andatela a vedere voi stessi!

È un posto immenso, da togliervi il fiato!I miei viaggi mi portarono dall’altra parte del paese, sulla West Coast, fino a San Francisco.

 

Lì trovai impiego temporaneo al Chronicle, come cronista di nera. Ci rimasi per un bel po’.

 

Stavo a Frisco nel 1934, quando fu indetto lo sciopero generale.

Nacque da una disputa sindacale giu’ al porto, che si diffuse ovunque come un lampo.

 

Mano a mano che la data dello sciopero s’avvicinava, le forniture alimentari arrivavano in citta’ piu’ a singhiozzo.

Fino a fermarsi del tutto – quando camion, treni, e navi smisero di funzionare.

Gli ospedali chiusero le porte ai malati. L’immondizia si accumulava agli angoli delle strade. I trasporti pubblici erano bloccati.

L’ordine pubblico si era disintergrato completamente.

Quando facevo il reporter a New York, ero stato testimone di una rivolta razziale, ad Harlem, durante la quale avevo visto gente che saccheggiava i negozi alla ricerca di cibo.

 

Ma quello spettacolo non era nulla in confronto al panico e alla disperazione che si impadronirono di San Francisco durante lo sciopero del 1934.

C’erano cadaveri per strada che non venivano nemmeno raccolti dall’obitorio!

 

I miei articoli per il Chronicle descrivevano la fame, la violenza, e l’anarchia che vedevo con i miei stessi occhi.

 

Il giornale ricevette proteste furiose.

La gente non credeva che scene come quelle che descrivevo potessero avvenire in America. Era impossibile.

 

Ma avvenivano.

 

Realizzai allora, per la prima volta, quanto il comportamento umano fosse controllato dallo stomaco, non dal cervello.

Quando il mugolare degli stomaci vuoti comincia a farsi sentire nelle case,

fa in fretta a trasformarsi in urla che attraversano paesi e città. Fino a diventare un ruggito che scuote tutto il paese.

 

Alla radice di sconvolgimento sociale c’erano la povertà e la fame, che generavano scontento e odio. L’odio nasceva anche dalla paura.

 

In quel senso, nulla servi’ ad aprirmi veramente gli occhi, quanto le riunioni dei Ku Klux Klan che seguii a Little Rock, in Arkansas.

 

Il mio caporedattore all’ American Weekly mi mandò nella culla del Klan per effettuare un reportage di prima mano sui loro strani riti.

Arrivato a Little Rock, e riuscii a scoprire dove il KKK teneva le sue riunioni segrete.

Una notte, mi trovai circondato da trenta membri del KKK vestiti di lenzuola bianche che marciavano intorno a una croce in fiamme.

Fu uno spettacolo devastante che mi lasciò depresso e disilluso all’idea che una cosa del genere potesse esistere in America. Nel mio articolo sul KKK, scrissi dei loro discorsi pieni d’odio,

contrapponendo le loro parole animate di rancore alla visione di una donna che allattava il suo neonato, anche abbigliata con il costume del Klan.

Il volto della donna era nascosto sotto quella federa assurda con i buchi ritagliati per il naso e gli occhi. Aprì lentamente la tonaca per mettere il seno nella bocca del piccolo….

I membri del Ku Klux Klan urlavano le loro immonde litanie, mentre una madre offriva quel dolce nutrimento al suo figliolo.

Il caporedattore dell American Weekly tagliò la parte della donna che allattava il bambino. Gli sembrava troppo inverosimile.

Quando vidi la versione pubblicata del mio articolo, mi incazzai al punto di telefonargli per lamentarmi -assicurandomi prima che l’operatore gli addebitasse la chiamata.

“Ho scritto esattamente quello che stava succedendo!” dissi.

“Allora avresti dovuto fotografare la donna con il bambino,” rispose lui.

“Sono un giornalista, per Dio, non un dannato fotografo!”

Ma il mio caporedattore aveva ragione. Una foto avrebbe reso le mie parole credibili.

Anzi, una foto della donna del Klan che allattava il suo bambino sarebbe stata più efficace di tutte le mie parole messe insieme.

 

Quello stesso giorno trovai una macchina fotografica da poche lire in un banco dei pegni,

e cominciai a scattare delle foto con cui accompagnare ai miei articoli.

 

Stavo cominciando a capire che avrei potuto trasmettere meglio le emozioni usando, insieme alle parole, anche delle immagini.

E non delle immagini qualsiasi, ma quell’immagine precisa che, un’istante particolare, ha il potere du catturare una multitudine di emozioni.