L’iter del disegno di legge intitolato “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, partito a febbraio 2014 (con il governo Letta) come collegato ambientale alla legge di stabilità 2014, è giunto – dopo l’approvazione dalla Camera a novembre scorso – alla fase dell’esame e votazione degli emendamenti da parte della Commissione Territorio, ambiente, beni ambientali del Senato. L’articolo 50 del ddl istituisce il Comitato per il capitale naturale.
Belle parole. Ma la fregatura è sempre dietro l’angolo, e prima di cedere alla tentazione di esultare, riteniamo sia opportuno svolgere alcune riflessioni critiche tanto sulla natura e le funzioni di tale comitato quanto sulla nozione stessa di capitale naturale richiamata nel nome del comitato.

A ben vedere, già nella presentazione del Ddl si coglie una visione secondo la quale affinché i dati riguardanti l’uso del patrimonio naturale possano avere un peso nella valutazione delle politiche occorre che alle diverse componenti di tale patrimonio venga assegnato un valore. Insomma: la risposta all’esigenza di tenere in conto, allo stesso tempo ed in maniera equilibrata, sia l’economia sia le questioni ambientali starebbe nel considerare in termini monetari tutto ciò che conta; ovvero, il ruolo del patrimonio ambientale va apprezzato, o può esserlo, solo in termini del suo contributo alla produzione di beni e servizi monetizzabili, quindi oggetto di scambi su mercati effettivi o potenziali.

Ma passiamo al testo del Ddl. Il comitato sarà composto da 9 ministri, un rappresentante della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, il Governatore della Banca d’Italia, il Presidente dell’Istituto nazionale di statistica, il Presidente dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche e il Presidente dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, o loro rappresentanti delegati. Da ultimo, il comitato è integrato, a discrezione del ministro dell’ambiente (che lo presiede), «con esperti della materia provenienti da università ed enti di ricerca, ovvero con altri dipendenti pubblici in possesso di specifica qualificazione». Una primissima valutazione è che in questo comitato ci sarà di sicuro molta economia, resa forte da molti ministri in esso presenti, mentre una disponibilità immediata di conoscenza relativa agli ecosistemi e alle interferenze esercitate sul loro funzionamento dal sistema socioeconomico è assicurata al comitato stesso da alcuni membri di estrazione tecnica e non governativa.

Sembra quindi legittimo temere che al centro dell’attenzione del comitato ci sarà la Natura solo in quanto presupposto dell’attività economica, non la Natura in quanto vita, né la Natura in quanto presupposto della vita umana.

Noi pensiamo sia vero semmai il contrario, cioè che non serva dare un valore alla Natura ma che gliene debbano essere riconosciuti tanti, o in altre parole che al fondo di molti problemi – tra cui sicuramente quelli ambientali – ci sia proprio il dominio della dimensione economica.

L’attribuzione di una natura economica (e magari di un determinato valore monetario) a una qualsiasi cosa, apre la strada alla sua alienabilità, ovvero alla possibilità di scambiarla o sostituirla con qualcos’altro – all’inizio magari questa possibilità è solo teorica, ma alla lunga è facile che diventi reale, come il land grabbing. La qualificazione della Natura come capitale apre la strada alla sua effettiva messa a frutto: perché non dovremmo realizzare sul mercato il valore dei servizi che un capitale ci può fornire? In fin dei conti, la ratio del mantenerlo sta proprio nell’assicurarsi il valore di quei servizi. Il punto cruciale – che qui si vuol contrastare – è quello di passare dalla centralità della Natura in quanto dotata di valore (anche economico ma non soprattutto quello) alla centralità del valore economico della Natura.

Il comma due dell’art. 50 fa (poca) luce sulle funzioni del comitato: dispone che esso trasmetta annualmente al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’economia e delle finanze (che però è presente nel Consiglio dei Ministri, oltre che nel comitato stesso: un lapsus rivelatore?) «un rapporto sullo stato del capitale naturale del Paese, corredato di informazioni e dati ambientali espressi in unità fisiche e monetarie, seguendo le metodologie definite dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e dall’Unione europea, nonché di valutazioni ex ante ed ex post degli effetti delle politiche pubbliche sul capitale naturale e sui servizi ecosistemici». Il richiamo alle metodologie definite da Onu e Ue vuol dire: statistica ufficiale; sembra ovvio d’altro canto che le valutazioni ex-ante ed ex-post debbano basarsi su una solida base statistica ufficiale, oltre che su metodologie condivise. Però non si vanno a creare le infrastrutture necessarie a colmare i ritardi esistenti su questi fronti. Si delinea quindi un impianto interessante ma privo di almeno un pilastro fondamentale.

La valutazione delle politiche, soprattutto quella ex-post, dovrebbe essere indipendente e priva di condizionamenti. Con nove ministri o loro rappresentanti nel comitato, e un potere discrezionale così ampio nella determinazione della composizione complessiva, qualche perplessità è quanto meno legittima.

Mettendo insieme tutto quanto sopra, e tenendo conto di precedenti simili esperienze (e in particolare di una commissione attiva qualche anno fa presso il ministero del tesoro), si può facilmente prevedere come nei fatti si configurerà il funzionamento del comitato. Gli alti dirigenti che verosimilmente saranno delegati a rappresentare i vari ministri e presidenti, ne rappresenteranno il nervo politico e meneranno la danza, magari senza capire gran che del merito delle valutazioni tecniche da licenziare, ma facendo molta attenzione all’opportunità di avallare determinate risultanze delle analisi e offuscarne altre. Alle spalle di questi alti dirigenti siederà una piccola schiera di funzionari formalmente cooptati nel comitato (gli «altri dipendenti pubblici in possesso di specifica qualificazione»): questi saranno il nervo tecnico del comitato. Alcuni di loro capiranno l’oggetto di cui si parlerà e si daranno molto fare perché si produca il rapporto e questo non crei problemi.

Accanto o anche dietro a questi, altri funzionari, almeno altrettanto esperti nel merito, lavoreranno nell’ombra, senza riconoscimento formale, a fare analisi e valutazioni che altri imperscrutabilmente promuoveranno o affosseranno. Il tutto, beninteso, a costo zero per le casse dello Stato, ma non per le altre attività relative ai compiti istituzionali che giocoforza verranno sacrificate; per non dire che la mancanza delle necessarie risorse aggiuntive spingerà alcuni servitori dello Stato a far uso pesantemente del proprio tempo privato nella speranza di un futuro, ma incerto, riconoscimento. L’incognita maggiore sono gli «esperti della materia provenienti da università ed enti di ricerca», che il ministro dell’ambiente potrà scegliere. L’Italia è sempre e ancora il meraviglioso Paese in cui c’è il rischio che un cavallo sia fatto senatore con un colpo di penna. Certamente a ragionare su questi temi non saranno chiamati esperti scelti dalla comunità scientifica sulla base di un qualche meccanismo democratico, con spazi certi per ecologi e altri scienziati naturali, e per esperti di interazione tra economia e ambiente e tra società e ambiente. Ma di tali esperti abbiamo bisogno. E il loro reclutamento per un comitato in cui si valutano le politiche dovrebbe essere basato su criteri genuini che ne garantiscano l’indipendenza.