L’imponente navata centrale del CAPC (Centre d’Arts Plastiques Contemporains) di Bordeaux coniuga un’ascetica verticalità da cattedrale col ritmo vertiginoso di piranesiane campate a tutto sesto. Osservare questo cavo spazio pneumatico fa quasi dimenticare di essere in un museo. Ma sorto dalla dismissione di un magazzino di derrate coloniali (l’Entrepôt Lainé) esso riflette in maniera formidabile, per suggestione e senso storico, l’aspetto auratico e mercantile dell’arte, soprattutto di quella contemporanea. Agli inizi degli anni settanta e sotto la direzione di Jean-Louis Fromen il vecchio magazzino diviene spazio espositivo di eventi internazionali. Gina Pane, Andy Warhol, Jim Dine, Christian Boltanski sono solo alcuni dei nomi di richiamo fino al 1984, quando verrà fondato il museo e si darà il via a lavori di ristrutturazione che anche nell’intervento di Andrée Putman trovano decisive soluzioni di dettaglio. Dettagli che in permanenza si notano negli omini danzanti di Keith Haring mentre scorrono come un film sulla parete dell’ascensore in movimento, o nelle strisce minerali di ardesia e pietra bianca tracciate da Richard Long sulla terrazza del museo.
In quasi cinquant’anni di attività, di attenzione rivolta alle principali correnti e figure del contemporaneo, il CAPC si è lanciato verso il nuovo, estendendo il proprio raggio culturale dall’arte plastica e performativa alla musica all’architettura al cinema e alla letteratura, e ha conosciuto momenti di riflessione sulla propria collezione e sulle nuove generazioni di artisti e curatori. Tutto questo all’oggi ha prodotto una nuova messa in prospettiva della collezione permanente al secondo piano, dal titolo œuvres de la Collection du CAPC, curata da José Luis Blondet e in corso fino al 28 aprile prossimo, e a due proposte temporanee della curatrice Alice Motard.
[sic] œuvres de la Collection du CAPC, al suo terzo e ultimo ciclo espositivo cominciato nel 2016, segue un principio dialogico tra le opere che nelle intenzioni curatoriali «considera le tracce lasciate su un’opera dal prestito di un riferimento precedente». Tradotto in termini istallativi l’allestimento, che si è avvalso della scenografa Benedeta Monteverde e di prestiti da altre istituzioni, riflette le opere nella loro ipertestualità, facendone documenti dialoganti tra loro attraverso rimandi concettuali e visivi di stagioni diverse del contemporaneo. Se questo è il lavoro fatto, individuare metodi e campi di azione dei singoli artisti ci permette di meglio ritrovare il fil rouge che le tiene insieme.
Così l’opera del pittore francese di origini bulgare Simon Hantaï (1922-2008) diviene paradigma di una ricerca di automatismo poietico molto sentita negli anni sessanta. Oppure le azioni del gruppo Présence Panchounette (collettivo di artisti attivi tra il 1968 e il 1990) riflettono l’esigenza neoavanguardistica di rinegoziare attraverso lo humour le forme concettuali e minimal del modernismo, anche mediante immissione nelle loro opere di elementi allotri e spuri. Mentre esemplare di un certo furore archivistico è l’opera dell’artista iraniana Chohreh Feyzdjou (1955-’96) fatta di accumuli e tassonomie nutrite di cultura ebraica e sufi.
Tra questi tre metodi diversi di azione – e dunque un certo automatismo seriale, la manipolazione di ready-made e varie modalità di accumulazione – è avvenuta la scelta di quasi quaranta artisti, tra cui spiccano i nomi di Jannis Kounellis, Heimo Zobernig, Toni Grand, Richard Serra, Peter Halley, Bruce Nauman, Joan Mitchell, Sherrie Levine, Mario Merz, Annette Messager, Olivier Mosset. Infine le allusioni al teatro disseminate sul percorso, con scene, tende e decorazioni, prolungano l’idea della collezione come finzione propria di un artista come Philippe Thomas.
Con due proposte temporanee, agli antipodi tra loro per prassi artistica ed espositiva e parimenti coraggiose, Alice Motard lancia due mostre: una retrospettiva della pluridisciplinare vulcanica e poetica nonagenaria Takako Saito (realizzata in collaborazione col Museum für Gegenwartskunst di Siegen e i curatori Eva Schmidt e Johannes Sthal, che chiude il 22 settembre) e le rigorose istallazioni dal titolo Rovesciamento del duo Marie Cool Fabio Balducci (in corso fino al 19 maggio).
L’apparenza naif del lavoro della giapponese Takako Saito, che dal 1979 vive e lavora a Düsseldorf, non deve trarre in inganno. L’errabonda carriera occidentale di questa avanguardista di Tokyo che nel 1963 si sposta a New York comincia con le azioni di inclassificabile libertà del gruppo Fluxus. La Saito si lega alla figura del fondatore del gruppo, il lituano George Maciunas, per poi alla fine degli anni sessanta trasferirsi in Francia e proseguire azioni e riflessioni fluxus con George Brecht e Robert Filiou. Prima di stabilirsi definitivamente in Germania, sarà il libro d’artista che la porterà prima in Inghilterra e poi in Italia, dove lavorerà con l’editore Francesco Conz.
Una grande sapienza artigianale e un leggero soffio poetico attraversa i più di quattrocento manufatti della mostra che hanno il dono gratuito del gioco. Un gioco di miniature che saturano lo spazio. Di libri-oggetto composti di legni intarsiati, minutissime carte e inchiostri di varia origine. Di improbabili scacchiere dove re, regina, alfieri, cavalli, torri e pedoni sono tutti quadrati, distinguibili solo per peso o per profumo. Di immaginifiche vesti-performance composte da innumerevoli tessuti e origami e tasche contenenti ogni genere di minutaglia. La percezione aptica e la partecipazione attiva del visitatore è fondamentale nell’opera di Takako Saito, e invita dunque all’interazione col manufatto artistico in un gioco anche mercantile in cui l’acquirente stesso diviene artista.
Un calmo, pertinace quanto metodico «luddismo» sembra invece ritualizzare l’azione dei due artisti, Marie Cool Fabio Balducci, che presentano nel monumentale spazio centrale del museo il loro Rovesciamento. Fatto di pochi, essenziali, banali elementi del mondo del lavoro (scrivanie, fogli A4, nastro adesivo, matite) e da elementi naturali come l’acqua e la luce solare, nonostante il forte impatto estetico, la loro sola ratio operandi sembra essere quella di sabotare i dispositivi del sistema produttivo turbocapitalista. Per il duo Cool-Balducci l’azione di disattivare la perversa macchina del profitto si concretizza nel porre un tavolo da conferenza in verticale, o versare dell’acqua su scrivanie d’ufficio, o ancora eclissare un foglio con un altro foglio. E anche l’istituzione ospitante non sembra essere risparmiata quando viene colta da un video che nello stesso spazio espositivo mostra i lavori in corso durante lo smantellamento di un evento privato dalle incongrue luci. Insomma, come Bartleby lo scrivano di Melville, il duo sembra dire al pervasivo sistema capitalistico, semplicemente ma perentoriamente, I would prefer not to.