Abbandonati i corridoi dei musei, le tele e le vite dei grandi maestri dell’arte, Caparezza tenta per questa sua settima creazione musicale, Prisoner 709 (Universal) in uscita oggi, un’operazione singolare. Partendo da quello che definisce «incidente professionale» – un acufene aumentato fino a diventare una sorta di tortura così da tenerlo lontano dalla scrittura per molto tempo – ha messo insieme sedici tracce che dal racconto del disagio mentale ci rivelano molte cose del nostro umano contemporaneo. Politicamente scorretto il musicista nato a Molfetta 43 anni fa lo è sempre stato, ma forse mai come per questo nuovo progetto mette a punto un percorso di autoanalisi che da una situazione di disagio arriva alla sua accettazione. Musicalmente è un disco compatto, forse uno dei suoi migliori di sempre; suonato dal vivo nello studio personale di Molfetta con uso attento e mai pretestuoso dell’elettronica, mixato a Los Angeles con un mago della consolle come Chris Lord-Alge, ancora al suo fianco dopo Museica. Il video del primo singolo che intitola il disco è folgorante, un claustrofobico viaggio in quattro minuti nel disagio mentale e fisico. Il tour parte il 17 novembre con una scenografia che terrà conto ovviamente dei temi affrontati nel disco: prigionia e evasione…

Tre anni dopo «Museica» fai come tabula rasa del tuo passato, sin dalla copertina. Ai colori sgargianti di quell’album contrapponi il bianco e nero dove si staglia un tuo prepotente primo piano..

Non so se a far scattare l’ispirazione è stato l’acufene, di certo ha contribuito. Sono un musicista e come tale vivo la terribile sensazione di aver fatto un album che non sentirò mai come la maggior parte delle persone. Ecco, direi che nelle nuove canzoni punto i riflettori verso me stesso e non verso il mondo esterno come ho fatto finora. Faccio riemergere la mia parte inquieta che probabilmente non avevo fatto uscire nei lavori precedenti. Ad esempio la Prosopagnosia (anche titolo del brano che apre il disco e dove collabora John De Leo, ndr) è un deficit che impedisce il riconoscimento dei volti altrui. In questo caso sono io che non riesco a riconoscere me stesso. Però cerco di non piangermi addosso, tanto che chiudo la raccolta con la stessa traccia ma in una versione allegra e felice. Ergo ho un problema, così accetto di averlo.

In «Forever Jung» azzardi un paradosso: il rap come evoluzione delle teorie di Freud e Jung. Una sorta di psicoterapia fatta attraverso un flusso incontrollato, quasi liberatorio, delle parole. E hai invitato un maestro del genere come Darryl Mc Daniels dei Run DMC…

Ti preannuncio (ride, ndr) che Prisoner 709 ha tutte le caratteristiche per essere il disco prima della mia morte, perché si sono chiusi cerchi come mai avrei immaginato. Io ho iniziato ad amare il rap a 13 anni attraverso alcuni video dei Run DMC che un’emittente di Molfetta trasmetteva. Fino a quel momento avevo ascoltato il rock e i Kraftwerk, stavo entrando nell’adolescenza ma quello era il background. Tre ragazzi in tuta che andavano a ritmo con le parole e un dj che suonava i dischi, non immaginavo che potessero diventare uno strumento musicale. E da lì in avanti il rap diventa il faro della mia vita fino ad arrivare al 2017 dove, nel mio momento di debolezza rappresentato emblematicamente da questo album, decido di far fare da psicologo al rap stesso. E non potevo non coinvolgere Daniel.

In «Confusianesimo» affronti il tema della religione e il suo rapporto con la ragione in modo lieve e ironico, immaginandoti immerso in tutti i credi possibili e immaginabili fino ad elaborarne uno nuovo. Confusianesimo, appunto…

Io sono uno scettico, non riesco a trovare pace in nessuna dottrina, religiosa o spirituale che sia. Fondamentalmente non capisco la fede perché è cieca, un concetto che applico in ogni ambito: religioso, politico, sportivo. Ho subito la fascinazione da piccolo – vengo da una famiglia cattolica, perché a quell’epoca non hai le armi razionali per poterla combattere. Con molta fatica sono riuscito a scrollarmi di dosso questi dogmi per seguire i miei ragionamenti. Nel pezzo decido di provare tutte le religioni finendo per impazzire diventando ancor più scettico di prima. E creando questa non religione, il confusianesimo.

«L’uomo che premette» è forse il brano simbolo del disco, rappresenta la parte oscura. Molti di noi si nascondono dietro un velo di tolleranza, ma sono pronti a cambiare repentinamente idea. È sintomo di questi tempi dove si innalzano i muri e squadracce fasciste pensano di calare nuovamente su Roma…

Il pezzo parla dei moderati che si definiscono tolleranti ma in realtà cambiano opinione a seconda del servizio giornalistico di turno, magari proprio sulle ondate di migranti. Il pericolo è dentro di noi; perché il razzista, lo pseudo fascista sono individuabili – non meno pericolosi certo, ma c’è una finta tolleranza strisciante che è ancora più pericolosa perché contagiosa. Intorno a me vedo gente che ha radicalmente cambiato opinione, passando dall’essere di sinistra a ’sì però adesso basta’. Durante le mie letture mi sono imbattuto in quello che viene chiamato «Esperimento della prigione di Stanford» a cura dello psicologo Philip Zimbardo. L’esperimento consisteva nel far recitare il ruolo di guardie e di prigionieri ad alcuni studenti universitari per due settimane. Fu interrotto dopo appena sei giorni perché nessuno riusciva più a sganciarsi dal ruolo assegnato. Le guardie divennero estremamente violente e i detenuti, annichiliti, finirono con l’accettare passivamente qualsiasi vessazione. Il prigioniero 819 tentò con uno sciopero della fame di sabotare l’esperimento e chiese di vedere un dottore abbandonandosi ad una crisi isterica. È pensando a quel prigioniero che è nato il titolo Prisoner 709.

In questo disco oltre a John De Leo (presente anche in «Minimoog»), Darryl McDaniels ospiti anche Max Gazzè…

Gli ho proposto di fare Migliora la tua memoria con un click. Io non amo la mia voce quando canto, la mia materia è fare rime e su quello mi sento abbastanza sicuro. Avevo bisogno di trovare qualcuno che la sostituisse e siccome la situazione era delicata ho pensato subito a Max. Gli ho detto che era libero di fare quello che desiderava, ci ha riflettuto un attimo e ha aggiunto quel recitato finale piuttosto bizzarro. Mi serviva proprio il suo timbro.

La ripresa finale di «Prosopagnosia» ha dei rimandi evidenti ai Daft Punk di «Random Access Memories». Il duo francese si ispira ai suoni e allo stile di Giorgio Moroder e la scuola disco di Monaco di Baviera nei ’70, ma anche ai tuoi beniamini Kraftwerk…

Vero. La mia idea è legata all’infanzia, se sento parlare di elettronica penso subito al vocoder, alle tastiere e ai synth. Quando i Kraftwerk sono arrivati hanno rivoluzionato la cultura musicale di quegli anni, e qualsiasi gruppo elettronico inevitabilmente paga pegno. Moroder lo stesso – ho amato moltissimo I feel love con la voce di Donna Summer, ma viaggiano su due universi diversi. Il produttore altoatesino ha incanalato quei suoni nella disco music, il trio tedesco ha invece preferito mantenersi in un ambito decisamente più sperimentale.

Il viaggio di «Prisoner 709» si chiude con «Infinto», dove immagini il mondo come un enorme videogame e «Autoipnotica» dove progetti la tua evasione..

È un fatto strano ma per la prima volta i pezzi di questo album seguono quasi un ordine cronologico, nel senso che Prosopagnosia è realmente il primo brano che ho scritto, e Autoipnotica e Prosopagnosia «felice» realmente gli ultimi. Autoipnotica mi serviva per evadere, e l’immagine rimanda al viaggio in auto. Io quando guido nonostante tutta l’attenzione dovuta, mi diverto a fare dei voli pindarici. Volevo trasferire l’idea di autoipnosi, questo gioco di parole tra l’auto e la macchina. Un giorno in macchina mi sono trovato a desiderare di fuggire da tutto e ho immaginato – come scrivo nel testo – di essere la zip che scuce l’autostrada facendo in modo di non poter davvero più tornare indietro. È strano ma capita certe volte: sono i pensieri che ti risolvono un’idea…