Endre Erno Friedmann (1913-1954), giovane ebreo comunista e aspirante scrittore, arriva a Berlino da Budapest, in fuga dalla dittatura di Horty, e inizia a lavorare presso uno studio fotografico. Con l’avvento del nazismo si sposta ancora, stavolta a Parigi; quindi si trasferisce in Spagna con la fidanzata Gerda Taro, per dedicarsi all’attività di fotoreporter durante la lotta fratricida che dal 1936 al 1939 vede scontrarsi nazionalisti e repubblicani. Qui decide di adottare lo pseudonimo di Robert Capa, per ragioni di opportunità commerciale. Nel 1937 Gerda muore schiacciata accidentalmente da un cingolato. Capa, invece, prosegue la sua carriera fino a quando resta vittima di una mina mentre è al seguito delle truppe francesi per documentare gli orrori della Prima guerra d’Indocina.
A decretare la fama internazionale di Capa è una foto datata presumibilmente 5 settembre del 1936 che ritrae un soldato dell’esercito repubblicano nell’attimo in cui viene freddato da un proiettile dei nacionales a Cerro Muriano, nei pressi di Cordova. L’immagine appare per la prima volta in Francia, il 23 settembre del 1936, sulla rivista «Vu» e poi il mese successivo su «Regards»; ma trova risonanza mondiale solo al momento della sua pubblicazione sull’americana «Life», il 12 luglio 1937. Oggi è tra le più celebri fotografie di guerra ed è comunemente nota con il titolo di Miliziano colpito a morte – sintetizzando la didascalia apposta su «Life», che per esteso recitava: «La macchina fotografica di Robert Capa coglie un soldato spagnolo nell’istante in cui viene ucciso da una pallottola in testa sul fronte di Cordova».
Fin dagli anni settanta la foto è stata materia di una polemica in merito alla sua autenticità, diventando un caso paradigmatico dell’etica del fotogiornalismo. Questa apparentemente infinita controversia è stata ora riassunta in maniera brillante, con taglio da inchiesta giudiziaria, da Vincent Lavoie in un libro intitolato L’affaire Capa Processo a un’icona (Johan & Levi, pp. 167, euro 23,00, traduzione di Rossella Rizzo).
Il primo e più tenace contestatore della genuinità dello scatto di Capa è Phillip Knightley, che già nel libro The First Casualty. From the Crimea to Vietnam: The War Correspondent as Hero, Propagandist, and Myth Maker (1975) insinuava il sospetto che fosse una scaltra messinscena. Mentre a prendere le difese dell’opera è stato soprattutto il biografo di Capa, Richard Whelan, spesso affiancato da Cornell Capa, fratello di Robert nonché fondatore e direttore dell’International Center of Photography (ICP) di New York. Knightley ha basato le proprie obiezioni sulla parola dei testimoni, ovvero sulla loro credibilità personale; ciò gli ha consentito di individuare delle incongruenze nella memoria degli eventi, che dimostrerebbero l’uso ideologico del mezzo fotografico da parte di Capa, simpatizzante dei repubblicani. Whelan, invece, ha impostato la propria strategia argomentativa sul valore probatorio delle immagini di Capa e dei suoi colleghi dell’epoca. Ricordi e testimonianze orali contro analisi di rullini, negativi, taccuini, provini a contrasto: «si tratta in effetti di un conflitto tra la parola attestata e l’attestazione visiva».
Capa stesso ha contribuito ad alimentare i dubbi, dichiarando in un’intervista radiofonica, registrata nel 1947 ma ritrovata e diffusa solo di recente, di aver eseguito la foto alla cieca. «Semplicemente alzai la macchina fotografica sopra la testa e, senza neppure guardare, scattai una foto quando uscirono dalla trincea. E questo è tutto. Lì per lì non guardai nemmeno le foto, le spedii con molte altre che avevo scattato. È stata probabilmente la foto migliore che abbia mai scattato. Non vidi mai l’immagine inquadrata perché tenevo la macchina fotografica molto in alto, sopra la mia testa». Del resto, è plausibile che le affermazioni di Capa, più che essere un’ingenua ammissione, mirassero a esaltare la drammaticità della situazione, il proprio coraggio, e la genialità di un gesto istintivo premiato dal destino.
L’irreperibilità del negativo del Miliziano colpito a morte ha reso inoltre le cose ancora più oscure; e in questo senso a poco è valso il ritrovamento nel 2008 della pur preziosa cosiddetta «valigia messicana», contenente 4.500 negativi di Capa, Gerda Taro e David Seymour (alias Chim), pertinenti al lavoro svolto dai tre sul fronte spagnolo.
Nel frattempo, tra la fine degli anni novanta e gli inizi degli anni Duemila, la contesa ha registrato un salto qualitativo, tramite il ricorso ai metodi della polizia scientifica: criminalistica e medicina legale. Contagiata dalla «sindrome di CSI», attraverso una serie di perizie e controperizie, la disputa si è concentrata sull’identità del miliziano e sulle cause fisiologiche della sua morte. D’altronde, le indagini sul nome del combattente immortalato da Capa sono coincise in Spagna con il recupero della memoria collettiva nazionale e la ricerca delle spoglie delle persone uccise o scomparse sotto il franchismo. Infine, le ricerche condotte nel 2009 da José Maria Susperregui mettendo a confronto varie immagini di Capa relative alla guerra civile sembrerebbero provare che il luogo dello scatto non fosse in realtà Cerro Muriano, bensì un’area denominata Espejo, in quei giorni estranea alle ostilità.
Nel suo libro, Lavoie rimane sempre aderente al proprio tema, senza dilungarsi in questioni filosofiche o teoriche come, ad esempio, lo statuto dell’immagine fotografica, il funzionamento della memoria umana, o il valore probatorio delle testimonianze, che pure sono tutti elementi che puntellano il discorso, traspaiono in filigrana e occasionalmente affiorano senza però mai prendere il sopravvento sull’agile ma circostanziata presentazione dei fatti.
In coda al volume c’è spazio per un’altra querelle, che riguarda Capa e la genesi delle «Magnifiche undici»: le fotografie delle truppe americane all’assalto di Omaha Beach il 6 giugno 1944, durante lo sbarco in Normandia. Pubblicate anch’esse su «Life», queste immagini sfocate e riprese da considerevoli distanze sono tutto ciò che rimane di oltre cento scatti, dopo che, secondo il racconto del photo editor di allora, un frettoloso assistente del laboratorio di sviluppo aveva asciugato le pellicole a una temperatura troppo elevata, danneggiando fatalmente gran parte del materiale. Ciononostante, per gli estimatori di Capa «l’imprecisione delle immagini diventerà un indizio probante dei rischi sconsiderati corsi dal fotografo; la povertà denotativa delle foto non sarà più l’espressione di un deficit rappresentativo ma il segno eloquente di un vero pericolo, l’attestazione di un’audacia fuori dal comune». Anche rispetto a questa vicenda negli ultimi tempi, e in modo particolare dopo l’anniversario del D-Day nel 2014, si sono moltiplicati gli scettici che hanno tentato di smontare tale «leggenda aurea del fotogiornalismo».
Lavoie non ha l’ambizione di risolvere il caso; l’intento è piuttosto quello di ricostruire una vicenda intricata, restando imparziale nella sua esposizione, e sollecitare così il lettore a riflettere sul concetto di autenticità in un momento storico come quello attuale in cui chiunque grazie alle tecnologie digitali è in grado di produrre e manipolare immagini. «L’autenticità è un valore attribuito e non una qualità immanente. È una delle conclusioni che possiamo trarre dall’affaire Capa, nel corso del quale il riconoscimento o meno dell’autenticità del Miliziano colpito a morte si è rivelato in definitiva meno cruciale, per la comprensione degli attributi cardinali del fotogiornalismo di guerra, rispetto ai metodi di autenticazione cui i principali protagonisti hanno prestato fede».