Domenica 22 dicembre, a quasi 3 mesi di distanza dal voto, sono stati resi pubblici i risultati delle elezioni presidenziali afghane del 28 settembre. Il 50,64% dei voti totali – 1 milione e ottocento mila -, pari a circa 924 mila schede, è andato al presidente in carica Ashraf Ghani, che ha raccolto consensi in particolare nelle province meridionali del Paese, a maggioranza pashtun.

Il 39,52% dei voti – circa 721 mila – è andato invece all’eterno sfidante, il “primo ministro” Abdullah Abdullah, rappresentante del Jamiat-e-Islami, il partito a maggioranza tagica, forte soprattutto nelle province settentrionali. Terzo il “macellaio di Kabul”, il padre-padrone del partito e del fronte di guerriglia Hezb-e-Islami Gulbuddin Hekmatyar, che incassa il 3,85% del consenso, 70 mila voti circa (meno delle 100 mila firme che servono per potersi candidare alle presidenziali).

I RISULTATI, che arrivano dopo molte contestazioni, estenuanti discussioni, litigi feroci, accuse reciproche, boicottaggi muscolari, proteste e posticipi, non chiudono la saga post-elettorale, ma ne inaugurano un nuovo capitolo. Sono infatti preliminari. La Commissione elettorale indipendente – che esce dalla partita con le ossa rotte per i ripetuti attacchi e tra le lacrime della portavoce Hawa Alam Nuristani – lascia il posto alla Commissione per i reclami, che ha il compito di raccogliere accuse di irregolarità e di verificarne la legittimità: «Lo faremo entro 39 giorni», assicura la portavoce Zuhra Bayan Shinwari, già sotto pressione.

Inevitabile che sia così: il presidente Ghani ha superato di circa 11 mila voti la soglia del 50% che gli assicurerebbe la vittoria al primo turno, ma se la Commissione dovesse accogliere e accertare le accuse degli sfidanti Abdullah e Hekmatyar, che parlano da settimane di frodi, ci sarebbe il ballottaggio tra Abdullah e Ghani. In un discorso televisivo alla nazione, domenica Ghani ha ribadito che intende trasformare il Paese per le generazioni future e assicurato un governo inclusivo. Ma non dorme sonni tranquilli.

ABDULLAH ha inviato 4 mila segnalazioni alla Commissione per le lamentele, la sua ultima speranza. Accusa Ghani di brogli dal giorno successivo alle elezioni, ha impedito per settimane grazie al boicottaggio dei suoi sostenitori il riconteggio dei voti (su 8 mila delle 26 mila sezioni totali) voluto dalla Commissione elettorale. Infine ha fatto sgomberare i sit-in dei suoi, ma senza cedere sul punto cruciale: vanno contati solo i voti registrati dalle macchine per l’identificazione biometrica. Per Abdullah e altri candidati minori come l’ex capo dei servizi segreti Rahmatullah Nabil, che parla di «attentato alla democrazia», ci sono circa 300 mila voti irregolari: circa 100 mila registrati al di fuori degli orari del voto; 137 mila sospetti, i rimanenti con dati incompleti. Voti che sarebbero stati attribuiti a Ghani. Se la Commissione per le lamentele dovesse annullarne anche solo un decimo, si andrebbe al ballottaggio, prolungando una cristi istituzionale durata fin troppo a lungo.
In attesa dello scrutinio, Ghani dichiara che i risultati elettorali sono una vittoria della Repubblica, una sconfitta di quanti miravano – e mirano – a formule alternative, come quel governo a interim auspicato da Washington e da una parte della classe politica locale, incluso l’ex presidente Karzai. Ma sa bene che il bilancio politico è già evidente: hanno votato 1 milione e 800 mila persone, di cui il 30% donne. Meno del 20% dei circa 9,7 milioni iscritti al registro elettorale, il 12% dei cittadini che per età hanno diritto al voto.

Un voto parziale, dunque. Tanto da spingere il dipartimento di Stato Usa a precisare che «chiunque sia il vincitore, deve assumere passi concreti per assicurare che l’ampia diversità del Paese si rifletta nella sua leadership».

A SFREGARSI LE MANI, soddisfatti dell’impasse politica, sono i Talebani. Hanno ripreso il negoziato a Doha con l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, e sono contenti di trovarsi di fronte negli eventuali negoziati intra-afghani un governo debole e un presidente azzoppato, perché privo di legittimità e consenso generale. Proprio come loro.