La Spagna continua a essere nel mirino di tutti i paesi europei per il numero crescente di casi di persone positive al Covid: 315mila dall’inizio della pandemia quelli dichiarati dal governo. Ieri i numeri erano piuttosto elevati: parliamo di circa 2.000 casi in sole 24 ore.

Perché scriviamo “circa”? Perché – e questo è uno dei problemi – il governo ieri ha comunicato in realtà 4.000 casi, di cui 1.900 relativi a giovedì, e il resto ai giorni precedenti. Pertanto, il numero è destinato a essere più elevato: vi si devono sommare i casi relativi a giovedì che verranno comunicati lunedì (il fine settimana ormai non c’è più conferenza stampa Covid) e in più quelli della comunità aragonese, una delle più colpite e che giovedì non ha comunicato i suoi casi.

Non passa giorno infatti che qualche comunità, e di solito fra quelle più colpite (come Catalogna, comunità di Madrid, Aragón o Castilla La Mancha), non “riesca” per misteriose ragioni tecniche a comunicare i propri dati in tempo. Secondo le cifre del ministero, negli ultimi sette giorni ci sono stati quasi 21mila casi, un numero che sta crescendo (all’inizio della settimana il numero dei 7 giorni precedenti era di 14mila).

In tutto questo, la buona notizia è che il numero di vittime rimane molto basso: in totale la Spagna è ferma a 28.500 vittime ufficiali, se ne aggiunge una manciata ogni settimana (16 negli ultimi 7 giorni), ma niente a che vedere con lo scorso aprile. Anche il numero di ricoverati, e di ricoverati in terapia intensiva, si mantiene su livelli molto bassi (680 ricoverati negli ultimi sette giorni in tutto il paese, 46 in terapia intensiva). L’altra buona notizia è che la percentuale di asintomatici o presintomatici è molto elevata (circa due terzi): vuol dire che si fanno molti test (sono 100 ogni mille abitanti).

La domanda che aleggia nel paese è stata scritta nero su bianco ieri sulla rivista scientifica The Lancet: come mai la Spagna si trova in questa situazione? In una lettera, venti esperti ed esperte in salute pubblica ed epidemiologia che lavorano in Spagna e all’estero notano che, nonostante la fama di essere uno dei paesi col miglior sistema sanitario al mondo, i dati mostrano una evidente sofferenza. Con 61 morti ogni 100mila abitanti, la Spagna è uno dei paesi con il tasso più elevato, assieme al Perù, persino più dell’Italia che ne ha 58 o degli Usa che ne hanno 49 (ma il Belgio ne contabilizza 85 e il Regno Unito 69, la Svezia ne ha 57).

I venti esperti chiedono che venga fatta «una valutazione indipendente e imparziale da parte di un gruppo di esperti nazionali e internazionali» di quello che si è fatto a livello nazionale e regionale «per preparare il paese a ulteriori ondate di Covid-19 o a future pandemie», scrivono. E ipotizzano diverse possibili ragioni: «La mancanza di preparazione per una pandemia (per esempio, debolezza dei sistemi di sorveglianza, bassa capacità di fare tamponi Pcr e scarsità dei dispositivi di protezione personale)», «una reazione ritardata dalle autorità centrali e regionali», «un processo decisionale lento», «un alto livello di mobilità della popolazione e migrazione», «scarsa coordinazione fra autorità centrali e regionali», «essersi basati poco sulla consulenza scientifica», «una popolazione invecchiata», «gruppi vulnerabili vittime di disuguaglianze sanitarie e sociali» e «scarsa preparazione nelle case di cura». In più, aggiungono, «questi problemi sono stati esacerbati dagli effetti di un decennio di austerità che ha svuotato il personale sanitario e ridotto la capacità dei sistemi sanitari pubblici». Ma, avvertono, questa valutazione non deve diventare un’arma politica per ripartire le colpe. Piuttosto, per identificare aree di miglioramento.