Sull’incendio bellico acceso in Siria dai pruriti trumpiani i due fronti ieri gettavano acqua e benzina. Con l’ennesima retromarcia, doppia, ieri il presidente Trump ha prima rallentato la corsa interventista contro Damasco, poi ha confuso di nuovo le carte.

«Non ho mai detto quando un attacco in Siria sarebbe stato realizzato – aveva scritto in mattinata su Twitter – Potrebbe essere molto presto o non così presto. In ogni caso gli Stati uniti, sotto la mia amministrazione, hanno fatto un gran lavoro contro l’Isis nella regione». Nel pomeriggio, parlando prima di un vertice con i suoi consiglieri, ha annunciato invece una decisione «a breve».

Dopo la minaccia di mercoledì di una pioggia di missili «belli e intelligenti», dietro l’apparente frenata c’è la frenetica azione diplomatica russa che ieri si è concretizzata nel rilancio della linea di comunicazione diretta tra Casa bianca e Cremlino, che fa tornare alla mente la linea rossa istituita durante la crisi dei missili a Cuba, 55 anni fa.

A comunicarne il pieno funzionamento è stato il portavoce del governo di Mosca, nell’idea di evitare un’escalation disastrosa per il Medio Oriente e il globo: «Continuiamo a ritenere estremamente importante evitare ogni passo che possa condurre a maggiori tensioni in Siria», ha detto Peskov. Nelle stesse ore undici navi russe lasciavano la base militare di Tartus per schierarsi lungo la costa siriana, pronte nel caso di un attacco aereo statunitense, e Mosca chiedeva per oggi una riunione d’urgenza al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

A Washington monta la preoccupazione e di conseguenza la confusione: la foga bellica – accesa da un presidente con più di un guaio in casa e da un rimescolamento dell’establishment che ha visto la nomina di falchi come Pompeo a segretario di Stato e Bolton a consigliere per la sicurezza nazionale – deve fare i conti con l’ovvia reazione della Russia, vero ago della bilancia nella regione.

Da qui il freno tirato: ieri la portavoce della Casa bianca Sanders, riportando del vertice tra Trump e il capo del Pentagono Jim Mattis del giorno precedente, ha detto ai giornalisti che «tutte le opzioni sono sotto esame e una decisione definitiva non è stata ancora presa».

Lo stesso Mattis è rimasto sul piano della possibilità: «Credo ci sia stato un attacco chimico, stiamo cercando prove concrete. Non abbiamo ancora deciso se lanciare un attacco militare in Siria».

La nuova cautela statunitense non contagia per ora gli alleati europei, Francia e Gran Bretagna, fin da subito pronti a infilarsi l’elmetto. Ieri la premier britannica Theresa May (mentre i sottomarini di Sua Maestà nel Mediterraneo si mettevano in posizione, verso le coste siriane, e la Raf rendeva operativi i caccia di stanza a Cipro) ha riunito il gabinetto per la sicurezza per discutere le misure militari da assumere contro il presidente siriano Bashar al-Assad, specificando di non aver bisogno del via libera del parlamento di Londra.

E mentre l’Iran ribadisce con il comandante in capo in Siria, Ali Akbar Velayati, sostegno all’alleato siriano «in ogni circostanza», a mostrare titubanza ora è la Turchia, costretta tra le due superpotenze. Tanto che fonti interne al governo turco negano che Ankara possa permettere a Washington l’uso delle basi Usa sul proprio territorio per lanciare attacchi su Damasco, e dunque contro la Russia. Erdogan resta in attesa del 16 aprile, quando il segretario della Nato Stoltenberg volerà ad Ankara; nel caso di richiesta diretta da parte dell’Alleanza Atlantica – aggiungono altre fonti interne – la Turchia si troverebbe di fronte a una scelta difficile.

Meno dubbi li dimostra la Germania che si è già sfilata dalla corsa alla guerra. La cancelliera Angela Merkel ha detto ieri che Berlino non parteciperà a interventi militari in Siria.

Chi è invece partito per il paese sono gli esperti dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac): ieri l’ambasciatore siriano all’Onu Jaafari ha annunciato l’arrivo di due team entro oggi. L’Opac conferma: gli esperti inizieranno a lavorare domani a Douma, a Ghouta est, il luogo del presunto attacco chimico di cui è accusato Assad.