La situazione dei migranti nella capitale libica è sempre più drammatica. Giovedì almeno in sei sono stati uccisi e in 24 colpiti da colpi di arma da fuoco nel centro di detenzione di Al Mabani. Lo ha confermato ieri l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che in un comunicato parla di «migranti feriti, stesi a terra in pozze di sangue». I numeri potrebbero essere più alti, perché la situazione è caotica e tensioni ci sono anche in altri luoghi di prigionia e nelle strade. In rete circolano video che mostrano centinaia di persone fuggire da Al Mabani e riversarsi nelle strade di Tripoli.

Si tratta di una conseguenza diretta degli arresti di massa realizzati la settimana scorsa nella capitale libica, in particolare nel quartiere di Gergaresh a forte concentrazione di migranti. Sarebbero almeno 5mila le persone rastrellate da case e alloggi di fortuna. Fonti locali parlano di 250 bambini e 600 donne. Anche in questo caso i numeri potrebbero essere molto più alti.

L’arrivo di migliaia di persone nei già sovraffollati centri di prigionia ha scatenato il caos. Medici senza frontiere (Msf) è tornata a visitarne tre nella capitale, dopo aver sospeso per 90 giorni ogni intervento a causa dei livelli di violenza insostenibili. Ha denunciato che in cinque giorni i reclusi sono triplicati e che sono state imprigionate intere famiglie. «Le persone sono state picchiate sulle gambe e hanno riportato fratture. Mi hanno colpito in testa con una pistola e ho gravi ferite», ha raccontato un rifugiato agli operatori Msf.

Quello di Al Mabani è un centro governativo aperto a gennaio scorso. A febbraio vi erano rinchiuse 300 persone. L’altro ieri, secondo l’Oim, ce n’erano 3.440, tra cui 356 donne e 144 bambini. Nella prigione non c’è acqua potabile, le celle non hanno finestre. Ad aprile le guardie hanno sparato contro i migranti uccidendo un uomo e ferendo due ragazzi di 17 e 18 anni. Quando Msf ha portato assistenza medica dopo i rastrellamenti ha trovato celle talmente sovraffollate da impedire alle persone di stendersi o sedersi, migranti che non mangiavano da tre giorni, uomini in stato di incoscienza e bisognosi di cure urgenti. Il personale della Ong ha anche assistito a un tentativo di fuga fermato con una «violenza inaudita» e ha visto «uomini picchiati in modo indiscriminato e poi stipati con forza in alcuni veicoli verso una destinazione sconosciuta».

La feroce quotidianità dei centri di prigionia sostenuti e finanziati dall’Italia e dall’Europa si è ulteriormente degradata nel corso di quest’anno a causa dell’impennata delle detenzioni. Oltre ai rastrellamenti di Gergaresh, le cause sono l’aumento delle intercettazioni in mare operate dalla sedicente «guardia costiera libica» (11.891 in tutto il 2020; 25.823 fino al 2 ottobre 2021) e lo stop imposto dal governo di Tripoli ai già limitati voli di evacuazione dell’Unchr e ai rimpatri volontari dell’Oim, a cui i migranti sono spesso costretti pur di lasciare il paese.

In queste ore centinaia di persone sono accampate davanti al Community day Centre dell’Unhcr di Tripoli. Protestano, chiedono protezione, cure mediche e soprattutto l’evacuazione dall’inferno libico. Ma il centro ha chiuso i battenti per diverse ore.

Contattato da il manifesto uno dei rifugiati che ha cercato riparo lì di fronte ha risposto: «Vi ricordo che questa situazione è l’effetto dei soldi che il vostro paese e altri Stati membri danno alle autorità libiche per rinchiuderci arbitrariamente in condizioni disumane, estorcerci soldi e sottoporci a violenze di ogni genere». Tripoli esegue, ma le responsabilità sono a Roma e Bruxelles. Altro che «nuova Libia».