Chi è passato da un crinale importante della storia non dimentica. E non è qualcosa di riconducibile al reducismo, alla nostalgia canaglia per quando si era più giovani e forti. Anche in musica. Mezzo secolo fa Piero Brega era col Canzoniere del Lazio. Un’avventura esaltante degli anni Settanta che convogliò ricerca etnomusicologica sul campo (l’Italia centrale, l’Italia meridionale) e rock progressivo, jazz avventuroso e già aperto ad ogni latitudine del mondo e canzone radicata nelle procedure, negli snodi musicali, nella poesia popolare. Pero Brega era la voce del Canzoniere del Lazio. Quando sono cambiati i tempi, s’è messo a far altro nella vita. L’architetto, ad esempio. Ma periodicamente, dileggiando con sprezzo la canonicità delle avventure discografiche scadenzate dalle ragioni di mercato, un disco all’anno sennò sei fuori, è tornato a farsi vivo con la sua voce da popolano smargiasso e tenero che non le manda a dire, che tronca le parole e decapita le sillabe alla romana, perché quando serve, serve davvero.

L’ULTIMO, splendido segnale in musica Piero Brega ce lo aveva mandato una dozzina d’anni fa, un secolo, nei tempi striminziti dei clic sulla tastiera di oggi. Era bello e importante, perché Brega non hai mai fatto un disco debole. Quando ha da raccontare una storia lo fa, punto e basta. E attorno ha sempre gente sulla stessa lunghezza d’onda. Adesso esce per Squilibri, casa assai attenta a chi ha percorso i crinali di cui si diceva in apertura, Mannaggia a me, titolo che più diretto non si potrebbe. E sono di nuovo canzoni brade e fumiganti, da contropelo doloroso alla realtà, perché nessuno scrive con la grazia lancinante e sorprendente di Brega, una grazia che fa quasi male, tanto è diretta, e canzoni equilibriste e migranti. Equilibriste, perché trovare un punto d’equilibrio sulla fune dei sentimenti e del raziocinio nel deserto divisivo dell’oggi, dove tutto sembra usurato nello spettacolo da schermi grandi e piccoli è un merito enorme.

MIGRANTI, PERCHÉ le strofe di Piero Brega migrano dalla dimensione individuale a un «noi» che s’è perso, un concetto o una metafora ne fanno germinare un altro e un’altra, perché, canta lui, «passo giorni e mesi per cantare un minuto», e perché «adoro la metafora, mi attira il paradosso, sono schiavo della carne, solo quella introno all’osso, la vita è sempre un po’ più in là, e questo sono io». Un «vecchio marinaio senza mare» che «non crede nell’aldiqua» di questi «tempi aridi», e che si ostina a immaginare «triangoli quadrati». Il tutto su un impianto folk rock che sembra una ricapitolazione per nulla accademica di mezzo secolo e oltre: dove troneggiano magnifici arrangiamenti di fiati (oboe, corno inglese, fagotto) di una grazia quasi barocca, e chitarre che sanno alzare flessuosi, gilmouriani inni alla gioia del suono tra i più belli ascoltati nell’ultimo decennio. Succede ad esempio con San Basilio, un esercizio di epica folk rock popolare che resterà. Come resterà questo disco. Mannaggia a lui, che è capace ogni volta di doppiarsi.