Una sola piuma si staglia tra un cielo pieno di nuvole e la terra rossa d’Australia nella copertina di Spirit Bird, ultimo album di «roots music» come la chiama il suo autore Xavier Rudd, aborigeno per via paterna e songwriter che spazia tra blues, reggae e folk suonando fino a sedici differenti strumenti durante lo stesso concerto. Un pennuto nero invece domina la cover di Blackbird, terzo cd dei neozelandesi Fat Freddy’s Drop, che hanno scelto Londra per il lancio del loro terzo lavoro, che prende il nome da una canzone dedicata a un merlo, blackbird in inglese, per poi arrivare in Italia con il loro live.

ll collega australiano, che dall’uscita del suo disco nel 2012 ad oggi è già tornato in Italia due volte, sceglie sempre un volatile per dare il nome al suo album, ma si tratta di un uccello totemico. «Spirit Bird è un antico spirito indefinibile ma di cui riconosco l’esistenza – spiega Xavier Rudd – so che c’è che parla a noi se lo sappiamo ascoltare e attraverso noi tutti si rivolge anche agli altri, lo fa anche attraverso di me quando canto. Lo spirito a cui ho dedicato l’album comunica molto più intensamente attraverso la musica, perché essa va oltre il linguaggio, mette in relazione tra loro persone che parlano lingue differenti».

Oltre ai messaggi espliciti che Rudd affida alle parole perché li diffondano viaggiando sulle note degli strumenti che suona, il polistrumentista australiano fa riferimento anche ad altri contenuti «una sorta di dimensione energetica che connette le persone nel momento in cui si trovano insieme unite dalla musica, ecco perché preferisco suonare dal vivo», non importa che si fischietti tutti insieme il ritornello di Let me be introdotto dall’armonica, oppure Follow the sun del nuovo disco, che è un inno a ritrovare se stessi vicino all’acqua quando la follia della società si fa troppo forte. Sole da prendere in faccia, aria da respirare, spazi liquidi in cui immergersi ritornano costantemente nei testi dell’intera discografia di Xavier Rudd, come lo «spirito della mia terra, che onoro con preghiere e rituali quando sono a casa e che porto con me in tour nella mia musica».

E questa sua volontà di portare con sé le proprie appartenenze originali o acquisite non emerge solo nei testi delle sue canzoni che dondolano tra folk, blues e reggae, dietro di lui sul palco ci sono appese anche tre bandiere, le stesse che porta riprodotte sulle toppe cucite sulla sua giacca: «una rappresenta l’Australia tradizionale, dove il rosso è la terra, il nero sono le genti che l’hanno abitata fin dalle origini e il cerchio giallo è il sole. Le altre due invece sono simbolo dei guerrieri del sole nativi americani e del lato aborigeno del Canada».

Da un lato all’altro dell’oceano la costante resta l’interesse di Xavier Rudd per «queste culture antiche, con le loro storie, molte delle quali andate perdute, che cerco di tramandare cantando. Un altro aspetto poi è quello degli strumenti musicali aborigeni, ognuno con un suo passato da scoprire, come il didjeridoo, uno degli strumenti che suono, creato naturalmente dalle termiti e originario dell’Australia, che ha un nome differente in base alla zona del continente in cui ci si trova». Conservare la tradizione in Australia è anche protezione del territorio, di cui l’artista si occupa sostenendo cause come quella dell’ente no profit Sea Sheperd, sia cantandone nei suoi pezzi, dove dà voce anche alle lotte per i diritti degli aborigeni.

[do action=”citazione”]«La cultura originaria australiana è molto legata a quella Moahawk nord americana a cui appartengono gli Ohnia: Kara Singers & Perpetual Peace Project, con cui ho condiviso il tour di Spirit Bird in Canada. Entrambe condividono un triste passato di oppressione e un presente da tutelare, come quella maori della Nuova Zelanda», a cui appartengono i Fat Freddy’s Drop, tra i preferiti di Rudd insieme agli «aussie» Oka, che spaziano da elettronica a jazz, passando per l’hip hop, piuttosto che Bobby Alu con la sua fusione di «pacific sound e world beats».[/do]

Oltre alla combo reggae, la scena delle isole appare più viva che mai anche se con qualche riserva, come spiega Chris Faiumu, che nel 1999 ha fondato i Fat Freddy’s Drop: «c’è tanto talento e pochissima industria musicale, cosa che ha i suoi vantaggi e svantaggi. Quando abbiamo cominciato a suonare la scena era molto orientata al club e alla dance, ma chi seguiva i live era appassionatissimo, ora le cose sono cambiate ed è tutto più omogeneo e commerciale».

Approdati in Europa nel 2003 grazie al singolo Midnight Marauders, i Fat Freddy’s Drop erano già attivi dal 1999 a Wellington, capitale neozelandese, dove elementi di band come The Black Seeds and Trinity Roots si sono trovati a suonare insieme durante delle session di improvvisazione, «che erano il nostro principale metodo di creazione musicale. Da sempre registriamo queste performance per tenere una traccia di idee e spunti interessanti su cui costruire qualcosa di solido» spiega Faiumu, che insieme ai compagni della band ha coniato un’etichetta per definire la musica dei Freddys «lo chiamiamo hi-tech soul»: «essenzialmente vuole essere soul music moderna che utilizza nuove palette di suono disponibili grazie alla tecnologia». Oltre a concentrarsi sui live con 800 date già alle spalle, i membri dei Fat Freddy’s Drop proseguono anche le loro attività parallele, «alcuni di noi hanno formato un’etichetta, l’Economy Records. Il genere di musica che producono spazia dall’afro-beat, al jazz, alle canzoni tradizionali Maori».