Difficile immaginare un artista che ebbe in vita più successo di Canova. «Tra tutti gli uomini che ho conosciuto metto al primo posto Napoleone, Canova e Lord Byron», dice senza mezzi termini l’adorabile, ciarliero Stendhal. E secondo un condizionamento tipico dei grandi nomi, trovare nuove chiavi di lettura può risultare ostico, per ogni generazione che si cimenta.
C’è voluto il genio di Hugh Honour per liberare dalle superfetazioni ottocentesche quel mito di purezza, che senza i suoi tempi diviene facile preda di appropriazioni. Bisogna soprattutto azzeccare la cornice, e non si potrebbe trovare luogo migliore, a Milano, della Gam, dove Canova I volti ideali (a cura di Omar Cuccinello e Paola Zatti, con un riuscito catalogo Electa, euro 28,00) è visibile fino al 15 marzo. Poi però ci vuole la luce e la scenografia giusta, anche perché ci si confronta con la villa progettata da Pollak, con gli arredi di Albertolli, o con i Cézanne e i Balla superbamente sistemati da Gardella nei mezzanini sotto i tetti, e ora anche con il rinnovato allestimento che propone le tante sculture dell’Ottocento giustamente tirate fuori dai depositi. E i lucernari della Gypsotheca di Possagno, costruita apposta per riconsacrare i materiali canoviani nel 1834, sono parte di quella fortuna postuma dell’artista che si costruisce anche con gli allestimenti. Forse la luce diurna ha lo stesso peso specifico delle fonti; si direbbe che entrambe siano necessarie, per capire il fenomeno-Canova.
Percorrendo la trama di relazioni che indaga la mostra, si può partire dalla Parigi del 1811. Quatremère de Quincy, un uomo che dai tempi del Direttorio vive nascosto e ha manifestato aperto dissenso per le requisizioni delle opere condotte ai danni dell’Italia, ha prestato un busto del Paride di Canova a un suo amico, di nome Bernard Lange. «Posso assicurarvi che non c’è stato nessuno che l’abbia veduta senza entusiasmo, basta a dirvi che in un momento, che io non mi sono trovato presente, David, duopo averla veduta, ha preso del gesso ed ha scritto sul cavalletto c’est admirable», scrive Lange allo scultore. Contemporaneamente, a Pisa, Giovanni Rosini fa installare il suo busto di Calliope in un «tempietto» dove la dea «siede come una regina», su una colonna nera. Nello studio della stessa abitazione, questo letterato avrebbe messo a punto una Storia della pittura italiana, che sognava dai tempi di una visita al Louvre. Ci avrebbe messo più di vent’anni a completare il suo proposito, e forse nei momenti di incertezza, uno sguardo a quel busto deve averlo ringalluzzito.
Dal Musée Fabre è arrivato un marmo più serafico – si è incerti se si tratti di una Clio o di una Calliope. Era per la contessa d’Albany, quella Luisa Stolberg che insieme ad Alfieri attraversa l’Europa in modo pericoloso, e commissiona, sempre a Canova, il monumento funebre di Santa Croce per l’amante-poeta. Del busto in gesso di Carolina Bonaparte, che sposando Gioacchino Murat diviene regina di Napoli, conta una certa affermazione di eleganza; ma se si passa al volto di Elisa Baciocchi, altra sorella di Bonaparte e governatrice della Toscana, il registro è tutt’altro: nessuna grazia, solo la durezza di un volto ispirato all’urgenza del comando da impartire. Il gesso, a Possagno, non dovette dispiacere alla committente: fu lei a chiedere a Canova una Venere Italica da collocare nella Tribuna degli Uffizi.
Il punto più alto di questa storia è l’Elena per Isabella Teotochi Albrizzi, una donna che nel 1809 aveva pubblicato un libretto sulle opere di Canova, «di scultura e di plastica». In cambio lo scultore le aveva donato un busto in marmo purtroppo non in mostra, ma attorno a questo pezzo mancante si è cucita una buona sala sulla ricezione di un’opera-cult. Il regalo suona un po’ autopromozionale e anche la cerchia che si stringe nel salotto veneziano rischia di limitarsi alla civetteria. Ecco come la vede il feroce Pietro Giordani, che mette in guardia Canova in una lettera: «tu ti credi obligato, se uno ti saluta, se uno ti loda. Ma seriamente credi mo’, che facciano un gran servigio a te?». Ma Byron scrive un’epigramma, ispirato dall’Elena della Teotochi, che vale tanto in termini di risonanza: figurarsi che il novello Omero diviene quasi più celebre dello scultore.
Le relazioni con i committenti potevano anche andare per tutt’altri versi: un’altra donna di salotto, con scarsi interessi per la politica, Juliette Récamier, chiede pure un ritratto a Canova, dopo aver trascorso una primavera a Roma, nel 1813. Mentre lo scultore, ad Albano, è alle prese con il marmo, lei va a visitarlo in studio. Vede un modello in creta, ma non è per nulla compiaciuta del risultato, tanto che Canova cambia iconografia, idealizzando il ritratto in una testa di Beatrice. È anche possibile che fra i due non si trattasse solo di arte, a leggere le lettere che Canova le indirizza.
Questa vicenda si svolge in anni tumultuosi: il 1814 è alle porte e significa Napoleone all’Elba. Lo zar Alessandro I va quindi a Malmaison, da Joséphine de Beauharnais, per acquistare tutti i marmi di Canova oggi all’Ermitage – e alcuni di questi busti sono in mostra. Per lo scultore è tempo di andare a Parigi, per trattare la restituzione delle opere vaticane: un’impresa in cui non si riponeva alcuna fiducia, e che ebbe invece il felice esito sperato grazie alle intercessioni degli inglesi. Così regali e apprezzamenti continuano a fioccare: nel 1816-’17, Canova dona quattro «teste ideali» a diplomatici amanti delle arti. Per una di queste, poi al Kimbell di Fort Worth, il destinatario era Charles Long, un consigliere di Giorgio IV che acquisterà altre opere di Canova per la corona – ma anche William Hamilton, Lord Wellington e Robert Stewart, marchese di Londonderry, sono all’origine della fortuna di Canova oltremanica: nelle case di città o di campagna disegnate da un William Kent, o all’ombra del Vesuvio, erano maturate sensibilità tutte rivolte all’Antico.
Infine, attorno alla Vestale della Gam di Milano, e alla Saffo della Gam di Torino, si sono radunate opere che potrebbero aver ispirato Canova: dalle donne velate di Antonio Corradini alla Zingarella dei Farnese, che ritorna visibile, dopo le guerre napoleoniche, nel Museo Borbonico della Napoli della Restaurazione. Raffaele Monti e Adolfo Wildt sono altri attori di un gioco lungo tre secoli, sul tema di un volto coperto da un velo: ma sono mondi fra loro tutti diversi. Si conclude con Giulio Paolini, che a inizio anni settanta cercava in Canova e nel Neoclassicismo «l’assenza di uno stile nuovo».