Thomas Lawrence, “Antonio Canova”, Possagno, Gypsotheca e Museo Canova

 

Chissà per chi parteggerà il visitatore della mostra Canova Thorvaldsen La nascita della scultura moderna aperta a Milano, alle Gallerie d’Italia, fino al prossimo 15 marzo. Uscirà canoviano o thorvaldseniano? Protenderà cioè per la scultura di rediviva classicità, di grazia, sentimento, partita dal cuore (come ebbe a scrivere Quatremère de Quincy) di Antonio Canova, oppure sarà più attirato dalla compostezza aurea, dalla fermezza nordica, dal diligente neoclassicismo espressi dalle opere del danese Berthel Thorvaldsen? Non so se la vexata quæstio sia oggi ancora valida, ma è certo che fin dagli inizi dell’Ottocento la narrazione voleva questi due artisti rivaleggiare a suon di statue e di dichiarazioni indirette, tanto che tale contrapposizione divenne, infine, un topos della storia della scultura.
Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca, i curatori dell’esposizione, hanno radunato a Milano, in Piazza della Scala, ben 158 opere, ordinandole in 17 sezioni, con il meritorio intento di dare concretezza a questo confronto, narrando le vicende dell’uno e dell’altro, l’immagine che rispettivamente hanno dato di sé, la loro glorificazione da parte dei contemporanei, il contesto e i rispettivi committenti più o meno prestigiosi.
Nei suoi occhi un luccichio
Canova è uomo dabbene, sorridente, che pare predisposto al dialogo, alla conversazione; nei suoi occhi sembra scorgersi sempre un luccichio, sintomo di vitalità interiore, di curiosità e passione incessanti. Lo si nota ben espresso nei due ritratti che il tedesco Rudolph Suhrlandt gli fece nel 1811. Quello proveniente da Copenaghen mostra lo scultore veneto rivolto verso l’osservatore, con le labbra socchiuse e lo sguardo attento, mentre con la mano sinistra sembra offrire alla nostra attenzione, per non dire al pubblico giudizio, il modello da lui realizzato della testa di Clio.
Un anno prima lo stesso pittore aveva immortalato il più giovane Thorvaldsen in una tela simile per impostazione e misure. Il carattere del personaggio è tuttavia differente. «Il cavaliere Alberto» – giusto per richiamare, almeno qui, il titolo di uno scritto dedicato al danese da Mario Praz – è, al contrario, serioso, con la fronte lievemente corrugata; guarda lontano, non certamente noi. Ha la bocca serrata, ferma, inespressiva. Anche lui ha la mano appoggiata sopra il gesso preparatorio per il capo di una sua statua, quella di Adone: una delle molte figure maschili per le quali fu particolarmente apprezzato – il veneziano lo era, invece, per quelle femminili, come ben dimostra Canova I volti ideali, l’interessante mostra visitabile, in contemporanea a questa, alle Gallerie d’Arte Moderna di Milano fino al 16 febbraio.
A differenza del ritratto di Antonio, in cui l’unica nota di colore è il rosso del tabarro e il candido bavero della camicia, Thorvaldsen ha appuntata sulla giacca blu notte la croce di cavaliere dell’Ordine di Danneborg, ricevuta proprio in quel 1810. Il grigio della testa di Adone perde purtroppo d’importanza accanto allo squillo dorato di quell’onorificenza, su cui l’occhio inesorabilmente cade. Con due ritratti così, le differenze tra i due scultori emergono evidenti, e non solo quelle caratteriali. Anche le strategie di comunicativa paiono diametralmente opposte: l’uno attaccato alla vanità dei riconoscimenti tributatigli, l’altro sostenuto dalla gloria conferitagli direttamente dalla sua arte.
Certo, nonostante ciò va sottolineato che Canova non si sente unicamente il miglior emulo dei maestri dell’antichità, bensì si percepisce e viene percepito quale Fidia redivivo, che è cosa ben diversa: «Il Canova è un antico, non so se di Atene o di Corinto», affermava Milizia nel 1787. E in mostra lo fa intendere molto bene lo stupefacente gruppo marmoreo scolpito – sotto la sua supervisione, come indica l’iscrizione lì leggibile – dal suo seguace Giovanni Ceccarini, e raffigurante Antonio Canova sedente in atto di abbracciar l’erma fidiaca di Giove. Uscito per la prima volta dal Palazzo Comunale di Frascati, l’opera venne realizzata tra il 1817 e il 1820. Dal canto suo Thorvaldsen parrebbe più a suo agio come artista calato nella contemporaneità, e infatti lo rintracciamo sempre ritratto in vesti moderne, come si vede nella copia del suo Autoritratto fatta nel 1861 da Emil Wolff e collocata nei giardini di Palazzo Barberini a Roma, dove si trovava tra l’altro lo studio dell’artista, oppure nel gesso di un trentennio prima circa plasmato dallo scultore di Verona Alessandro Puttinati, di sapore già romantico. Non mancano inoltre ritagli di quotidianità. Su tale versante, emblematico il quadro con gli Artisti danesi all’osteria La Gensola a Trastevere (Copenaghen, Thorvaldsen Museum) uscito dal pennello di Blunck sul finire del quarto decennio dell’Ottocento. In primo piano, sulla destra, ecco Berthel ormai sessantasettenne, seduto a una lunga tavola in compagnia di una folta schiera di giovani artisti, forse alcuni dei suoi allievi.
Il vero cuore dell’intera rassegna è rappresentato certamente dalle otto sezioni sviluppate ognuna attorno a uno specifico tema e giocate sul confronto serrato tra le opere dei due artisti, a cui fanno da contorno lavori di scultori e pittori a loro vicini e contemporanei. È un percorso composto per la gran parte di figure e gruppi di candido e finissimo marmo; un vero trionfo della statuaria a cavaliere tra Sette e Ottocento. Questo secondo atto prende avvio con la sezione ottava, intitolata Le Grazie e la danza.
Le tre Grazie, la modernità
Il primo soggetto qui affrontato è indubbiamente tra i più significativi dell’intera epoca neoclassica. Dall’Ermitage di San Pietroburgo è stato concesso uno dei diamanti del catalogo canoviano: Le tre Grazie, opera commissionata nel 1812 al maestro di Possagno dall’ex imperatrice dei francesi e regina d’Italia Joséphine de Beauharnais. Qui Canova esprime tutta la sua originalità, la sua modernità; egli è realmente quel «Pigmalione che dà vita ed anima ai marmi», secondo le parole che gli indirizzò il padovano Melchior Cesarotti. Le tre figure femminili, dai bei corpi giovani, sono percorse da una casta sensualità. È tutto, il loro, un guardarsi, accarezzarsi, abbracciarsi. La nudità per Canova poteva trasportare «a que’ primi tempi della beata innocenza».
Volendo rispondere a questo gruppo, considerato poco affine ai canoni della scultura antica, in cui ad esempio la figura centrale era di spalle, Thorvaldsen iniziò a lavorare nel 1817, cioè l’anno stesso in cui il veneziano consegnò la sua opera, una statua dall’identico soggetto. Provocatoriamente, egli volle ‘sfidarlo’ mantenendo la sua variante, aggiungendovi anzi la figura in basso a sinistra di Cupido. I corpi sono concepiti in modo differente: più idealizzati, astratti. Le forme appaiono più nette. È una grazia di linee quella del danese, raggiunta «per la via diretta del pensiero razionale, al di fuori di ogni inclinazione al naturale o privilegio ereditario» (Argan).
L’occasione è realmente unica, potendo il visitatore giudicare con i propri occhi; decidere, insomma, a chi assegnare il suo punto, il suo apprezzamento. E potrà farlo anche per le figure danzanti lì presenti, come pure proseguendo con le altre tappe dell’esposizione. Dopo un intermezzo dedicato ai ritratti, ci sono altri tre momenti importanti di dialogo tra i marmi dei due autori protagonisti della rassegna: quello dedicato alle raffigurazioni di Venere, in cui è esposto anche un dipinto di Canova intitolato La sorpresa, del 1799; quello focalizzato sulle varianti del tema d’Amore, con opere dal Getty Museum di Los Angeles, dal Prado di Madrid e da Vienna; e quello sui temi di Amore e Psiche e le immagini in volo.