Quando Juliette Recamier, la bella nobildonna francese che animava i salotti francesi giunse in Italia, si precipitò nello studio romano di Antonio Canova, in via delle Colonnette. Al suo cospetto, si presentò un uomo piccolo, impolverato, con un berretto di carta in testa, scalpello e martello in mano, «i miei strumenti poetici», si giustificò. Quell’atelier, «stanza» di intensa sosta per gli intellettuali – scrittori, artisti e filosofi – che alla ricerca di sublimi tracce del mondo classico compivano il Grand Tour, alla morte dell’artista cadde in disuso. Ma le opere (bozzetti, gessi e marmi) tornarono a Possagno, dopo un viaggio testardo cui li costrinse il fratellastro di Canova, Giovanni Battista Sartori. Tornarono dunque nei luoghi in cui lo scultore aveva iniziato e, bambino, al seguito del nonno scalpellino, aveva strabiliato la gente del posto e i nobili con la sua perizia (la famiglia dei Falier offrì al giovanetto una educazione veneziana presso Giuseppe Bernardi).

Ed è sempre qui, a Possagno, che è ambientato il documentario di Francesco Invernizzi Canova (in oltre 250 sale, dal 18 al 20 marzo, distribuisce Magnitudo Fim con Chili) dove il direttore della Gipsoteca Mario Guderzo guida gli spettatori lungo le superfici levigate delle statue, scandagliando ogni dettaglio e catapultando lo sguardo dentro i segreti del fare arte. Argilla e gessi sono infatti le matrici da cui Canova ricavò ogni sua statua: Argan lo trovò così moderno da regalargli l’epiteto di primo designer.

Uomo della crisi fra due mondi, come lo definisce Vittorio Sgarbi, che vide la fine del 700 aprendosi all’ignoto dei nuovi territori (America compresa: suo il ritratto di George Washington di cui l’originale è andato perduto in un incendio), lo scultore che si faceva leggere i poeti classici mentre era al lavoro, va ricordato anche per la sua abilità nel tessere relazioni diplomatiche. Divenne una specie di soprintendente attenendosi alla regola che poi informò ogni legge della conservazione: le opere appartengono al loro territorio, sono frutto di quella storia e sono inalienabili. Grazie al credito che aveva riscosso in Francia, fu spedito dal papa presso Luigi XVIII a reclamare i capolavori razziati da Napoleone: riconquistò Raffaello, i cavalli di piazza san Marco e pure il Laocoonte.
Al Mann di Napoli dal 29 marzo al 30 giugno, si potrà visitare anche la mostra Canova e l’Antico, curata da Giuseppe Pavanello: 110 opere e 12 prestiti dall’Ermitage, tra cui Le tre Grazie.